Gaza. La strategia israeliana del trasferimento e il dilemma geopolitico di Washington

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di Giuseppe Gagliano –La visita a Washington del capo del Mossad, David Barnea, non è solo un episodio diplomatico: rappresenta il tentativo di Israele di trasformare la crisi di Gaza in un’opportunità strategica, spostando il baricentro del conflitto verso soluzioni che sfidano apertamente il diritto internazionale. La proposta, riportata da Axios, di trasferire “centinaia di migliaia” di palestinesi da Gaza verso Paesi terzi come Etiopia, Indonesia e Libia, con l’assistenza statunitense, ha già acceso un acceso dibattito tra i governi occidentali e le organizzazioni per i diritti umani.Israele definisce questo trasferimento come “volontario”. Ma molti giuristi, sia negli Stati Uniti sia in Israele, lo considerano un crimine di guerra sotto la Convenzione di Ginevra. La linea di Barnea è chiara: ottenere da Washington un sostegno logistico, diplomatico e finanziario per convincere Stati terzi ad accogliere un numero imponente di sfollati. Un piano che riflette non solo l’ossessione israeliana per la sicurezza, ma anche una visione radicale di ingegneria demografica.L’amministrazione Trump, interpellata attraverso il consigliere per il Medio Oriente Steve Witkoff, si trova davanti a un bivio. Ufficialmente la Casa Bianca non ha ancora espresso una posizione definitiva. Witkoff è stato descritto come “non sbilanciato”, ma l’approccio di Trump – che già in passato aveva evocato l’idea di un trasferimento di massa dei palestinesi – lascia intendere che Washington potrebbe appoggiare in parte l’iniziativa, sebbene con forti cautele per evitare un isolamento internazionale.Benjamin Netanyahu dal canto suo ha elogiato la “visione brillante” del presidente americano, parlando di “libera scelta” per i palestinesi. Una narrativa che contrasta con la realtà: dopo mesi di guerra, quasi tutti i due milioni di abitanti di Gaza sono stati sfollati almeno una volta, e gran parte delle infrastrutture civili è stata rasa al suolo. Per molti palestinesi, la scelta non sarebbe tra restare o partire, ma tra partire e sopravvivere.Il Cairo osserva con crescente preoccupazione. Il governo egiziano ha proposto un piano da 53 miliardi di dollari per la ricostruzione di Gaza in cinque anni, articolato in due fasi: una iniziale di recupero per la bonifica delle macerie e la fornitura di alloggi temporanei per 1,5 milioni di sfollati, e una seconda fase per la ricostruzione di infrastrutture, case e zone economiche. L’Egitto teme che un trasferimento di massa dei palestinesi verso la penisola del Sinai destabilizzerebbe la sua sicurezza interna e aprirebbe un fronte sociale esplosivo lungo il fragile confine con Gaza.La proposta israeliana mette in luce la geopolitica dei rifugiati: convincere Paesi terzi ad accogliere un numero massiccio di palestinesi non è solo una questione umanitaria, ma implica la costruzione di nuove alleanze e l’uso di leve economiche e diplomatiche. Paesi come Etiopia, Indonesia e Libia, già afflitti da tensioni interne, difficilmente accetteranno senza sostanziosi incentivi finanziari e garanzie di sicurezza.Anche per Washington il rischio è alto: appoggiare un piano simile significherebbe assumersi la responsabilità di un possibile esodo forzato, con conseguenze imprevedibili per la reputazione americana nel mondo arabo e musulmano. Ma opporsi apertamente potrebbe incrinare i rapporti con il governo Netanyahu e aprire un nuovo fronte di tensione in una regione già instabile.In gioco non c’è solo il destino di Gaza, ma l’intero equilibrio mediorientale. Se attuata, la strategia israeliana potrebbe creare un precedente per la gestione di altre crisi demografiche e alimentare nuove ondate di instabilità in Africa e Asia. Se bloccata, potrebbe invece spingere Israele verso una politica di isolamento ancora più rigida e radicalizzare ulteriormente il conflitto.