Natalino Mele oggi ha 64 anni. Non lavora e vive in una casa popolare occupata. Nei giorni scorsi ha scoperto di non essere figlio di suo padre Stefano. Ma di Giovanni Vinci, maggiore dei tre fratelli (Salvatore e Francesco) sospettati per molto tempo di avere a che fare con il Mostro di Firenze. E oggi quando gli chiedono se il padre era un assassino risponde con ironia: «Quale dei due?». La prova del Dna ha certificato che la madre Barbara Locci lo ha avuto con Giovanni, anche lui emigrato dalla Sardegna e componente della comunità sarda che si era stabilita tra gli anni Cinquanta e Sessanta nei dintorni di Firenze.Chi ha ucciso Barbara Locci?Il delitto dell’estate del 1968 a Lastra a Signa è importante perché secondo le prove balistiche rappresenta l’esordio della pistola Beretta calibro 22 con cui il Mostro di Firenze continuò a uccidere tra il 1974 e il 1985. Ma il legame tra gli altri sette duplici omicidi e quello di Lastra a Signa è sempre stato contestato. Tanto che Pietro Pacciani non è stato mai condannato per quell’omicidio. Natalino rimase orfano della madre sul sedile di una Giulietta. Era incredibilmente uscito con lei e uno dei suoi amanti quella sera: Antonio Lo Bianco. Erano andati a vedere un film osé che veniva proiettato nell’unico cinema della zona. Poi si erano appartati nelle campagne. Lì qualcuno vuota l’intero caricatore della pistola contro i due amanti. Ma risparmia Natalino, che dorme sul sedile posteriore dell’auto. E dice di non essersi accorto di nulla.Il caso Stefano MelePer l’omicidio è stato condannato il marito di Locci, Stefano Mele. Oligofrenico, l’uomo ha accusato gli amanti della moglie dell’epoca (ovvero Salvatore e Francesco) nelle sue dichiarazioni contradditorie. La prova del guanto di paraffina nei suoi confronti era debolmente positiva. Secondo le ricostruzioni di quella notte Natalino bussò alla porta di un muratore lì vicino per dirgli che la madre era morta e che il padre era a casa malato. Nessuno è in grado di dire, nemmeno lui stesso, se il bambino dell’epoca a sei anni e mezzo avesse fatto il percorso da solo o accompagnato da qualcuno. Forse il killer stesso. Lui si ricorda soltanto che per farsi coraggio cantava una canzone in voga all’epoca: “La tramontana” di Antoine.La TramontanaIl cui ritornello era: «Conosco tutte le vostre donne / e non è detto che per Giuliana /io non perda la tramontana / Mi piaccion nere, mi piaccion bionde, mi piaccion tutte le donne al mondo / e per il pizzo di una sottana / perdo sempre la tramontana / l’ho perduta e la perderò». Nel colloquio con Stefano Brogioni, Natalino dice che non ha mai conosciuto i membri della famiglia Vinci: «Non ho mai conosciuto nessuno di loro. Non so neanche se è morto o se è vivo (è morto, ndr). Per me sapere di essere suo figlio è stata una botta». In realtà dalle testimonianze dell’epoca risulta che conoscesse almeno Salvatore e Francesco, che si presentavano spesso in casa Mele per Barbara e che lui definiva zii, come Antonio Lo Bianco che è morto con la madre.La mamma al cimiteroDice di non essere mai andato a trovare la mamma al cimitero: «Non so neanche dov’è seppellita e mi ricordo pochissimo di lei. Il mio babbo invece quando uscì dalla prigione sono andato a incontrarlo a Ronco dell’Adige (dove si trovava l’istituto che lo accolse dopo la scarcerazione, ndr)». Della notte del 1968 ha detto in molte occasioni di non ricordare più nulla. All’epoca lo interrogarono senza l’ausilio di uno psicologo e condizionandolo in molte occasioni. Anche minacciandolo se non diceva la verità. Per questo tutto quello che ha messo a verbale all’epoca va preso con beneficio d’inventario. Anche di aver visto un altro dei suoi «zii» dietro un cespuglio quella notte.La camminataLa parte più misteriosa della storia sono i chilometri che ha percorso di notte da solo per arrivare alla casa del muratore. E le parole che disse all’epoca, riportate dai familiari: «Mio padre è a casa ammalato, mamma e zio sono morti in macchina». Parole che sembravano troppo precise per un bambino sotto shock. E, soprattutto, che confermavano l’alibi del padre, il quale il giorno prima dell’omicidio aveva lasciato il lavoro dicendo di soffrire di mal di pancia. Della notte del 1968 oggi non ricorda «nulla, nulla. Altrimenti lo avrei già detto». Neanche se ha camminato da solo o qualcuno l’ha accompagnata fino alla casa: «Io son convinto di aver camminato» Ma era tanta la strada. «Io non sapevo nemmeno dove eravamo. Che ore erano?» Intorno alle due. «T’immagini. Quindi era buio pesto».Pietro PaccianiInfine, Natalino dice la sua su Pietro Pacciani. Che secondo lui non è il vero Mostro di Firenze: «Per me no. Può essere stato quello che è stato, per quello che ha fatto, ma non il mostro. Lì secondo me c’era qualcuno in alto, l’ho sempre pensato. Perché non è possibile, né una traccia, mai visto da nessuno. Era uno che si sapeva muovere, che conosceva le zone. Il delitto perfetto non esiste ma in questo caso ne ha fatti otto. Non penso Pacciani, che era un arruffone, che vociava, lo avrebbero sentito. Invece il mostro deve essere stato uno calmo, con il sangue freddo».L'articolo Natalino Mele, Giovanni Vinci e la pista sarda per il Mostro di Firenze: «Mio padre un assassino? Quale dei due?» proviene da Open.