Non conosco la storia di Thiago Elar. Ma ne comprendo la dinamica: il dolore, poi la caduta

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C’era ben altro dietro la maschera del disturbo alimentare che Thiago Elar mostrava con ostinazione al pubblico mediatico. Nella richiesta estrema di affetto e vicinanza umana lanciata attraverso i social, si nascondeva un grido profondo, deturpato dalla forma e dal mezzo, che ha tradito il senso autentico del suo bisogno rendendolo un oggetto mediatico, travalicando dunque le intenzioni del ragazzo che aveva affidato alla rete il suo disagio. Il malessere interiore di questo ragazzo lo mostrava per quello che era: un soggetto intento a cercare qualcuno che gli restituisse forma, contorno, esistenza. Una ricerca d’amore, là fuori.Qualcosa che travalica le cure mediche di cui usufruiva egregiamente. Noi clinici lo sappiamo bene: “Sto guarendo dall’anoressia dottore. Ormai ne sono fuori. Ma oltre queste mura non ho qualcuno che mi ami” è la frase emblematica che chi fa il nostro lavoro spesso si sente rivolgere.Thiago chiamava ad adunata diverse figure significative della sua vita, raccontando la sua storia: non per spettacolarizzare il dolore, ma per fermare una caduta nel vuoto. Ho visto alcuni dei suoi video. La mente è corsa, senza volerlo, all’ultima foto di Aldo Moro prigioniero. In quell’immagine lo statista non guarda chi gli sta scattando il fotogramma. Guarda in camera, verso un altro astratto, impersonale. Che, da lui invocato, non ha occupato il posto di tenuta e garanzia. Sia Thiago che Aldo Moro ci consegnano lo sguardo enigmatico di chi sa che sta precipitando.Non conosco la storia di Thiago. Ma ne riconosco la dinamica, perché è la stessa che vediamo ogni giorno nei pazienti che si aggrappano a un sintomo, spesso alimentare, per non disgregarsi. Non è il cibo il problema. Il disturbo alimentare è a volte una debole corda con la quale sorreggere una personalità che si va disgregando. È un’identità sfilacciata, a malapena incollata, che chiede di essere tenuta insieme con ciò che resta. Amore, soprattutto.Thiago, inconsapevolmente, è caduto nella trappola mediatica. Forse ha ingenuamente creduto che i social potessero amplificare il suo grido e ottenere un aiuto, diretto. Che bastasse convocare – con lo smartphone come confessionale – gli spettatori per arrestare la caduta. Ma il messaggio non è stato raccolto. Al contrario: è stato risucchiato nel meccanismo dell’intrattenimento a scorrimento rapido, divorato dallo scroll compulsivo. È diventata una clip, non più un grido.Ecco dove si annida il punto demoniaco dell’appello via social. Nella strozzatura perversa che questi impongono: l’illusione di rivolgersi a qualcuno, mentre si urla nel deserto. Si crede di parlare, ma si viene consumati. Si spera di essere visti, ma si finisce nel pacchetto del dolore preconfezionato, pronto per l’uso emotivo e superficiale di chi osserva, ma non tocca.I social promettono ubiquità, ma negano presenza. Trasformano la sofferenza in contenuto, non in relazione. Eppure, quando il disagio mentale prende voce, la risposta resta quella di sempre: una voce viva, reale, calda, presente. Quel calore che, forse è mancato nella sua infanzia e nella sua vita pregressaLo diceva anche Foster Wallace: quando arriva la crisi, serve chiamare un amico, farsi trovare, esserci. Un corpo, una voce, una mano tesa, possono più’ di mille visualizzazioni. Se c’è una amara lezione che noi dobbiamo impartire ai nostri giovani, è proprio quella di non entrare nel tritacarne mediatico in cerca di un aiuto che si tramuta in una spettacolarizzazione ed amplificazione del loro dolore.Nulla so delle cause della morte ma, qua, vorrei spezzare una lancia di conforto per coloro i quali lo hanno assisto medicalmente sino alla fine, immagino senza sosta e senza risparmio, pensando al loro dolore e al loro senso di frustrazione. Ne intuisco il senso di abnegazione e il loro lavorare pancia a terra per Thiago, e i tanti pazienti difficili. Capisco il loro dolore. Noi sappiamo che ogni paziente che ci lascia, straccia in noi un corposo pezzo di carne. Non per questo viene meno l’abnegazione e la dedizione, certi, tutti noi di questo modo psy, che a volte l’assenza ci sfiora e ci interroga, lasciandoci interdetti.L'articolo Non conosco la storia di Thiago Elar. Ma ne comprendo la dinamica: il dolore, poi la caduta proviene da Il Fatto Quotidiano.