Sébastien Lecornu ha da poche ore preso il testimone da quel Fracois Bayrou dimessosi (Parigi ha cambiato tre premier in poco più di un anno) sotto il peso del malcontento popolare, del tiro incrociato dei partiti e di una manovra che sa un po’ di esame di coscienza, con i francesi che forse hanno preso atto dello stato disastroso delle proprie finanze e di un debito che costa più di quello italiano.E che oggi si attesta intorno al 116% del Pil, il terzo in Europa, pari a oltre 3.300 miliardi di euro a fine primo trimestre 2025. Ma è il deficit a fare paura: 5,8% del Pil, quasi il doppio del limite europeo del 3%. Bayrou ha puntato su un pacchetto di risanamento da circa 44 miliardi di euro tra tagli e aumenti fiscali, con l’obiettivo di ridurre il deficit al 4,6% entro il 2026 e al 2,8% entro il 2029. Le misure, però, hanno incontrato una forte opposizione: l’eliminazione di due festività nazionali è diventata il simbolo di un malcontento diffuso, che ha alimentato la contrarietà tanto dei sindacati quanto dell’opinione pubblica.E gli scontri in strada di due giorni fa, che ricordano tanto i gilet gialli, sono lì a testimoniarlo. La pressione sui mercati è poi crescente. L’agenzia Fitch ha già inserito la Francia sotto osservazione, con possibile declassamento. La nota attuale è AA- con outlook negativo: un taglio porterebbe il Paese a solo sette gradini dal livello junk, con il rischio che fondi obbligati da regole di investimento più rigide siano costretti a vendere titoli francesi. Di tutto questo, ma non solo, Formiche.net ha parlato con Daniel Gros, economista tedesco, direttore dell’Institute for European Policymaking presso la Bocconi.“Quella della Francia è una crisi prima di tutto politica e poi economica. I problemi finanziari del Paese non sono così severi”, premette Gros. “Semmai quello che sto vedendo in questi giorni mi ricorda più la situazione della Germania, alla fine della prima guerra mondiale, la Repubblica di Weimar, dove gli estremismi avevano la maggioranza in una società profondamente divisa. E c’è un settore pubblico in crisi, con una spesa pubblica fuori controllo. Ma se parliamo del versante economico, sono molto meno preoccupato di quanto si creda. Non vedo insomma una crisi finanziaria generalizzata, i fondamentali economici francesi ci sono tutti”. L’economista tedesco stringe ancora di più il campo sulla crisi politica francese e sulle tensioni fortissime di queste ultime settimane. “In Francia il sistema politico a volte concentra i poteri nel presidente, che poi trova il suo contropotere non in una vera alternativa politica, ma in una minoranza aggressiva, come sta accadendo in questi giorni. Si tratta di qualcosa di profondamente intrinseco alla società francese, molto difficile da cambiare”.Quando però si parla di debito, il pensiero non può ricorrere all’Italia del novembre del 2011, quando i conti sottosopra posero fine all’ultimo governo Berlusconi, aprendo le porte all’austerity di stampo tedesco. Ma Gros non la vede così. “Non vedo parallelismi in tutta onestà con il caso italiano di quattordici anni fa. I problemi dell’Italia e degli altri Paesi periferici all’epoca derivavano in gran parte da un contesto di avversione al rischio e a un sistema bancario indebolito. A quei tempi era tutto il sistema finanziario che era andato in tilt. E c’era una percezione, forse eccessiva, di grande debolezza sia del sistema bancario sia della finanza in generale. Oggi i mercati sono molto più produttivi di allora, c’è più energia, più forza. Insomma, un contesto completamente diverso”. Va però riconosciuto come le economie mediterranee, quelle per tradizione più indebitate, oggi se la passino meglio rispetto a quelle storicamente più virtuose. Ma anche qui Gros fa delle precisazioni. “Certamente, c’è stata un’inversione di tendenza, ma dire che l’Italia oggi stia più in salute della Germania mi sembra una forzatura”.Il discorso si allarga poi ai dazi e al recente accordo tra Stati Uniti ed Europa, che in molti hanno visto come un compromesso al ribasso per l’Ue. Non è così. “Se noi guardiamo ai numeri, le esportazioni europee negli ultimi mesi sono aumentate. Questo per dire che non vedrei tale accordo come una netta vittoria statunitense, anzi semmai direi che gli Usa si sono fatti del male con le proprie mani”. Semmai il problema è a est, quella Cina che sta fagocitando l’industria europea. “Anche qui non me la sento di sottoscrivere tali affermazioni. La pressione del Dragone sull’Ue c’è, non lo nego. L’Europa oggi è ancora forte nell’industria e non vedo una sua dissoluzione, una sua scomparsa”.