Di un paio di giorni fa la notizia di un cambiamento nel regolamento del Festival di Sanremo: l’età massima per andare in gara nella sezione Giovani si alzerà da 26 a 28 (la minima resta di 16). Niente di sconvolgente in effetti, se non forse un ragionamento riguardo cosa e chi in questo paese, in musica e non solo, siamo ormai abituati a considerare “giovane”. A proposito di cambiamenti, quest’anno abbiamo rischiato seriamente, com’è ormai noto, di assistere ad un trasloco storico, quello del Festival in un’altra città, poi Rai e comune di Sanremo hanno in qualche modo risolto deludendo, ve lo sveliamo, le aspettative di molti addetti ai lavori, commossi all’idea di poter affrontare la settimana cruciale del settore in città più facilmente raggiungibili. Anche il tema location è ricicciato fuori, e non è la prima volta; per molti, e non possiamo dire che non abbiano ragione, il Teatro Ariston è ampiamente obsoleto, troppo piccolo per ospitare quello che è di gran lunga il più grande e seguito fenomeno di costume della stagione culturale italiana. Si dice che Paolo Bonolis qualche anno fa rispedì al mittente l’invito per la conduzione della kermesse proprio perché la Rai non accettò un cambio di location. Insomma, tutto pronto a cambiare e alla fine ci si ritrova tutti allo stesso posto: il Festival a Sanremo, i cantanti all’Ariston e il pubblico sul divano. Eppure il Festivàl della Canzone Italiana di Sanremo non è un meccanismo perfetto, ormai lo accettiamo passivamente perché anche certe imperfezioni fanno parte della tradizionale liturgia dell’evento, ma non è che non esistano, anzi, ecco quelle sulle quali a nostro parere sarebbe più urgente intervenire.Stop al televotoIl Festival di Sanremo è una manifestazione nazional-popolare e che non venga inteso il termine in senso negativo, come un rigurgito radical-chic, un evento reso gigantesco proprio dalla presenza fisica e in termini di percentuali di share del pubblico. Forse anche troppo. Partiamo da un assunto inoppugnabile: il Festival di Sanremo è l’unico contest in ambito artistico di un certo rilievo cui vittoria non viene assegnata da una giuria di esperti. Negli Stati Uniti i Grammy vengono assegnati dalla National Academy of Recording Arts and Sciences, gli Oscar dalla Academy of Motion Picture Arts and Sciences, i Golden Globe da una giuria composta da giornalisti membri dell’Hollywood Foreign Press Association. In Inghilterra i Brit Award sono scelti dalla British Phonographic Industry, in Francia il Grand Prix du Disque viene assegnato dall’Accademia Charles Cros. Ma non serve andare lontano, per esempio: i David di Donatello sono assegnati dalla Giuria dell’Accademia del Cinema Italiano, composta da cineasti candidati e premiati negli anni passati. Premio Strega, Premio Pulitzer, i César francesi, i Tony Awards, L’Orso d’Oro, non esiste al mondo un premio in ambito artistico assegnato con il televoto. Il televoto spesso, sempre erroneamente, viene scambiato come volontà popolare, contrappeso democratico rispetto alla dittatura snob della critica musicale, ed eliminarlo come elemento da quella che, come già detto, è la più importante e seguita manifestazione culturale italiana sembrerebbe un oltraggio al popolo, quasi come il sovvertimento del suffragio universale, un atto che rischierebbe di far scricchiolare le basi della democrazia italiana. Erroneamente, appunto, perché eliminare il televoto dal Festival di Sanremo non minerebbe il potere assoluto, totale, incontrovertibile, del pubblico a casa, che con le sue scelte, com’è naturale che sia, condiziona vita e morte di qualsiasi progetto discografico. Il fatto è che il televoto non certifica alcunché in quanto condizionato da troppi fattori. Uno di questi è certamente la popolarità dell’artista, e ci chiediamo: al netto dei casi alla Lucio Corsi, che fortunatamente ancora abbattono le barriere del probabile, in tempi in cui tutto passa dai social, come può un qualsiasi giovane artista, magari forte di un bellissimo brano, competere con, nome a caso, Fedez, che con una storia su Instagram raggiunge in un colpo solo quasi 14 milioni di utenti? Si, non è un’equazione matematica, ne siamo consapevoli, infatti Fedez non ha mai vinto, ma in generale ci sembra chiaro che avere milioni di utenti rende più agevole e, soprattutto, luminoso il proprio percorso nel Festival. Ci chiediamo ancora: come può un cantautore che proviene dal circuito indie gareggiare al televoto contro un collega che ha vinto un talent, proprio grazie al televoto, pochi mesi prima? Il televoto poi è condizionato anche dalla sacrosanta simpatia (o antipatia) che un singolo telespettatore può provare per un artista, a prescindere dalla canzone, il che come dato ci sembra tutto fuorché oggettivo. E ancora: al netto di una scaletta per cui si prova, con risultati alterni, a bilanciare gli orari tutte le esibizioni, come può un artista che suona intorno all’una di notte avere le stesse possibilità di uno che suona alle 21:30? Olly ha vinto l’ultima edizione di Sanremo perché il suo pezzo (così come il suo personaggio) è molto efficace, e su questo non c’è dubbio, ma qualcuno una volta chiuso il sipario dell’Ariston ha notato che il cantautore genovese si è esibito sempre in orari decenti, tra le 22 e le 23, durante i picchi di share o perlomeno in orari in cui lo share era ancora sveglio e vigile. Addirittura c’è chi ha anche ipotizzato un inverosimile intervento della manager Marta Donà affinché il suo nuovo pupillo non fosse relegato nella piccionaia della scaletta. E questo ragionamento porterebbe dritto per dritto anche a riflettere sul numero folle di artisti in gara e una marea di tempo perso appresso a invereconde passerelle per la promozione di altrettanto invereconde fiction Rai attraverso, spesso, invereconde gag. Ma non è questo ora il punto. Il Festival di Sanremo non è un reality qualsiasi, è una cosa assai seria, un evento che condiziona in maniera netta l’intera carriera di un artista, quindi la sua vita, compresa l’economia dei tour. Ma non solo, la classifica del Festival di Sanremo, così come quella di Spotify, fornisce all’industria discografica una serie di dati che poi regolano in che direzione questa si muoverà in futuro. Esempio: la vittoria di un cantautore apre il varco ad altri cantautori, le etichette avranno un interesse economico nel produrre nuova musica di quel tipo. Perché, è bene chiarirlo, l’industria non vende ciò che gli piace, vende ciò che ha mercato, che sia la trap o Charles Aznavour, non fa la minima differenza. Quindi se Sanremo viene vinto da buona musica, le etichette si convinceranno che la buona musica vende, così proporranno buona musica. Alla luce di tutto ciò, appare chiaro, la scelta del vincitore non può essere condizionata da un elemento così folle come l’umore di chi sta a casa a guardare. Non ha senso, rende tutto poco credibile, inattendibile, inverosimile. Il Festival di Sanremo, ripetiamo, è il più importante fenomeno di costume della stagione, e allora si prenda la responsabilità di esserlo, di decretare quale sia il miglior brano tra quelli scelti per gareggiare da un direttore artistico che dovrebbe essere, si spera, un autentico e certificato esperto di musica. Poi ci penserà il mercato a soddisfare le bramose fauci del pubblico, ansioso di dire la propria, a riequilibrare le sorti di un brano. E questa non è una novità, capita in ogni caso, come capita quando scorrendo la lista dei film in sala si sceglie di andare a vedere un cinepanettone invece che un film da Oscar, entrambi hanno funzioni artistiche precise e non mettiamo una al di sopra dell’alta, ma non sarebbe un po’ strano se un cinepanettone vincesse l’Oscar? Ecco, appunto. Tutto ciò ovviamente, a meno che non si certifichi ufficialmente che Sanremo è un semplice show televisivo, una passerella di volti per cui se tu entri e canti bene o entri e canti male o entri e fai qualsiasi altra cosa, in linea di massima è lo stesso, ma allora eliminiamo la gara, la classifica, che tra l’altro, come sosteneva a ben ragione De André, questa cosa della gara tra quelle che dovrebbero essere opere d’arte non è che rappresenti il massimo della raffinatezza, per questo il cantautore dei cantautori si è sempre rifiutato di partecipare. A meno che non si certifichi che Sanremo è una gara per decretare la canzone più efficace e immediata, una sorta di Festivalbar 2.0, dove chi vince alla fine conta tanto quanto. E allora va bene tutto, anzi, lasciamo esclusivamente il televoto, dispensiamoci da arzigogolate analisi, pagelle, notti infinite, spiegoni e interviste. Ma se è vero (ma non lo è quasi mai), come proclama ogni singolo direttore artistico del Festival, che «La musica deve stare al centro», allora sarebbe il caso che la Rai si occupi della formazione di un’Academy ad hoc, una giuria ben studiata, lontana dagli interessi economici delle discografiche e che certifichi, secondo i parametri della critica musicale, qual è la miglior canzone in gara, non quella che più delle altre mette d’accordo un po’ tutti.I finti esperti della sala stampaA scanso di equivoci, tagliamo la testa al toro rispondendo subito: no, la soluzione al problema non è il voto della sala stampa. L’organizzazione del Festival di Sanremo, per bilanciare il televoto “popolare”, utilizza l’elemento sala stampa. Il voto dei presunti esperti, il voto presunto intellettuale, è (sarebbe) rappresentato così dai 1487 (questo il numero relativo a Sanremo 2025) accreditati tra la Sala Stampa dell’Ariston Roof e la Sala “Lucio Dalla” al Palafiori. Forse però sarebbe il momento di mettere nero su bianco una verità assai nota agli stessi giornalisti che annualmente sono inviati dalle proprie redazioni in Liguria: essere accreditato in sala stampa al Festival di Sanremo, guadagnando così il diritto al voto (anche per il Premio Mia Martini della critica), non fa automaticamente del giornalista un esperto di musica. Non è un giudizio supponente sul lavoro di altri colleghi, ci mancherebbe, ma solo un’analisi oggettiva, diremmo quasi matematica, logica: i giornalisti di carta stampata e web che in Italia seguono giornalmente le trafficatissime vicende legate alla nostra discografia, come confermato dai più noti uffici stampa che si occupano di musica in Italia, non sono più di una quarantina e il loro voto a Sanremo vale esattamente quanto quello di giornalisti che spesso, in maniera anche piuttosto imbarazzante, di musica non sanno assolutamente nulla. Basti ricordare nel 2024 la collega accreditata che non aveva idea di chi fosse Geolier, l’artista che secondo i dati FIMI aveva venduto più album nei 12 mesi precedenti. Esattamente come essere inviato all’ultima finale di Champion’s League e chiedersi (decliniamo l’infelice esclamazione): «Ma chi ca**o è Dembelé???». Chiariamo: non saperne di musica non presuppone alcunché in termini di professionalità, Sanremo, si sa, non è solo musica, c’è molto altro da raccontare, anzi, troppo spesso è la musica ad essere messa da parte, ma alcuni inviati a Sanremo durante l’anno si occupano di cronaca, di sport, di gossip, di politica, 44 sono le testate straniere accreditate nel 2025, tutti indiscutibili professionisti che però non hanno tempo, possibilità e competenze per star dietro al folle moto perpetuo della musica italiana. Circa 40. 40 su 1487, arrotondando con manica larga ad un centinaio se consideriamo anche radio e tv. Una percentuale comunque bassissima che rende la sala stampa niente di più che un gigantesco divano su cui siedono, come in una qualsiasi famiglia italiana, esperti, meno esperti, appassionati, anche tifosi e anche spettatori disinteressati.La direzione artisticaAmadeus nel 2020, quando prende in mano il Festival, ha un’intuizione da grande professionista: capisce che il mercato musicale italiano si è sdoppiato. Da un lato c’è la musica in tv, quella legata ad una tradizione viva ma ormai ampiamente superata, che però è assai riconoscibile, assai familiare al pubblico della Rai. Dall’altro c’è la musica vera, fatta di nomi sconosciuti, che vibra in quegli anni degli ultimi sussulti della rivoluzione indie e che attira un pubblico di giovani assai numeroso, quelle generazioni di giovani che non vivono in funzione del palinsesto televisivo, una generazione on demand che non pende più dalle labbra dei famigerati talent e si trova da sola in rete quello che più gli piace. Soprattutto una generazione di pubblico attivo, che paga abbonamenti su Spotify e tira fuori i soldi per andare ai concerti. L’anima del mercato musicale. L’intuizione di Amadeus è tanto semplice quanto efficace: allargare le braccia e accogliere tutti, anche a costo di fare letteralmente notte a causa di una del tutto spregiudicata quantità di artisti nel cast. È così che il Festival di Sanremo è tornato ad essere l’evento da record di una volta. Certo, anche questo sistema presenta delle falle, perché se è sbagliato comporre un cast guardando allo share, non è meno sbagliato comporre un cast guardando agli stream o al potenziale radiofonico (una dichiarata fissazione per Amadeus). Il punto è che il Festival di Sanremo non ha solo obblighi contrattuali, non deve solo performare economicamente, non è solo un’esca affinché il pubblico a casa ingolli più pubblicità possibile, ha anche delle responsabilità discografiche se è vero (ed è vero) che è ormai l’ultima autentica vetrina della musica italiana. Ora dunque sarebbe il caso di compiere delle scelte coraggiose, una su tutte: basta imboccare il pubblico, basta accontentarlo a tutti i costi, basta scongiurarlo di rimanere incollato allo schermo spacciando piccole dosi di spudorato pop melodico, e pensare esclusivamente alla proposta artistica. Quindi basta con gli slot per far contente le nonne con Orietta Berti, Marcella Bella, I Cugini di Campagna e Iva Zanicchi. Basta con con personaggini patinati come Elettra Lamborghini o Tony Effe, che poi infatti sul più complesso palco del circuito musicale italiano fanno improponibili e prevedibilissime figuracce. Basta con queste playlist rimpinzate di tentativi di hit, basta quindi con i The Kolors, con le Elodie, con le Clara, basta con questi personaggi che vivono per finire in radio e in radio ci finiscono comunque, anche senza quella potente accelerata. Portare invece in gara, all’attenzione del più largo pubblico possibile, nuovi Lucio Corsi. Noi di Open qualche mese fa abbiamo pubblicato un pezzo in cui segnalavamo altri dieci Lucio Corsi attualmente attivi in Italia, ma è stata una gran fatica fare una selezione, saremmo potuti arrivare serenamente a cento. Possibile che artisti di altissimo spessore, pronti ad arricchire il nostro patrimonio musicale con brani significativi, gli autentici eredi della nostra più lucente tradizione cantautorale, debbano restare a casa a guardare Tony Effe frignare perché non può salire sul palco a cantare (male) una canzone (orrenda) con una collana da 71mila euro al collo? O ascoltare una playlist con una serie di brani, scritti dagli stessi identici autori, che si assomigliano in maniera sfacciata e imbarazzante? Non è paradossale? Nel 1994 Pippo Baudo, per la prima volta nella storia del Festival, ha scelto di occupare contemporaneamente la poltrona del conduttore e del direttore artistico, due ruoli che sono assai diversi perché diverso è (dovrebbe essere) lo scopo. Il conduttore è giustamente interessato ai numeri, allo share, alla propria carriera, a non finire crocifisso sui giornali, non deve niente alla musica. Il direttore artistico è colui che si prende la responsabilità della scelta delle canzoni. Ora, senza entrare nel merito di quanto siano più o meno esperti di musica contemporanea personaggi come Baudo, Bonolis, Panariello, Fazio, Amadeus o Conti, è proprio concettualmente che i due ruoli entrano in conflitto. Questo probabilmente influisce sulla ricerca, alle volte eccessiva, inspiegabile, snervante, di volti noti al pubblico televisivo e brani catchy. Questo spiega anche l’enorme bluff dietro alla narrazione di «Canzoni che sono arrivate». Le canzoni di Sanremo nella stragrande maggioranza dei casi non “arrivano”, ma sono espressamente richieste dal direttore artistico quando, nei mesi precedenti al Festival, fa il giro delle sette chiese per capire le major quali volti hanno da proporre. Volti, prima ancora che canzoni. Le convocazioni sono il risultato di un bilanciamento piuttosto zoppicante tra la validità del brano (anche se ogni anno non mancano proposte musicali indecenti) e la notorietà dell’artista. Chiaro dunque che un’ottima ballad di un giovane artista, magari non proposto da una major, non sia merce che “conviene” ad un direttore artistico. Forse allora sarebbe il caso che la direzione artistica sia affidata ad un tecnico, a qualcuno che tiri una linea editoriale ben precisa, che abbia una visione totale e chiara di cos’è la musica italiana oggi, che stia attento ai trend, assolutamente, ma che badi bene alla qualità del prodotto. Giusto per evitare di ritrovarci ad assistere all’ennesimo Festival rimpinzato di starlette take away, di potenziali crash da TikTok e pochissima musica autentica. Giusto per non tornare, ancora una volta, a chiederci: è questo il Festival di Sanremo che vogliamo?L'articolo Perché per il Sanremo del futuro vorremmo un’Academy come agli Oscar, più Lucio Corsi in gara e stop al televoto proviene da Open.