Non basta un volto spaccato, ricostruito con ventuno placche di titanio e un nervo oculare lesionato “in maniera permanente”. Non basta aver subito per anni violenze fisiche, psicologiche, economiche. Non basta che i due figli adolescenti si siano costituiti parte civile. Tutto questo non basta al giudice del Tribunale di Torino, Paolo Gallo, per condannare al reato di maltrattamenti l’ex moglie dell’imputato (l’uomo è stato condannato a un anno e sei mesi solo per il reato di lesioni).Non è però l’assoluzione in sé che ci sgomenta, perché solo leggendo la sentenza non si possono avere sufficienti elementi per trarre le valutazioni che solo chi segue un processo può avere, ma sono le motivazioni addotte che ci lasciano incredule, attonite, senza parole. Una rassegna di stereotipi, una sequenza di motivazioni che giustificano o minimizzano la violenza, un elenco di frasi sessiste che ci si aspetta di leggere in un manuale sul patriarcato, non certo in una sentenza nel 2025. Non si può condannare un uomo che sferra un pugno che massacra il volto e l’occhio della donna, perché “Va compreso, lei sfaldò il matrimonio” e “La sua amarezza sentimento umano”.Il nodo centrale, che fa rabbrividire, sta proprio nel trovare giustificazioni a quella cultura del possesso che come sappiamo è la causa della maggior parte dei femminicidi nel nostro Paese. Sei mia, mi hai lasciato e non meriti di vivere, posso fare di te quello che voglio. Questo è in sintesi quello che sottende a questa sentenza: è la donna colpevole di aver “comunicato la separazione in maniera brutale” e dunque, l’imputato va “compreso” perché si sentiva “vittima di un torto” perché lei aveva un altro. “Un sentimento molto umano e comprensibile per chiunque”No caro Giudice, non è affatto comprensibile: questa è la cultura patriarcale che da anni noi combattiamo, che è ormai considerata da tutta la letteratura, da ricerche e studi, la causa di morte di tante donne ogni anno per mano del marito, del fidanzato, del partner, e la causa di tante forme di violenza domestica, un fenomeno enorme di cui non si ha però effettiva contezza perché, come senz’altro lei saprà, tantissime donne non denunciano: per paura, per vergogna, per il timore di non essere credute, per isolamento sociale, ma soprattutto per non essere vittime due volte.Perché sentenze come questa sono il classico esempio di vittimizzazione secondaria: è la donna messa sotto accusa perché esagera, perché non è credibile, perché è colpevolizzata e stigmatizzata, mentre l’uomo violento ha sempre “diritto” a qualche giustificazione: è lei che ha sfasciato un matrimonio “per sua iniziativa personale … Un matrimonio ventennale, allietato dalla nascita di due figli”. E lui si sentiva vittima di un torto, ferito, perché lei aveva un altro, e il suo comportamento, la violenza efferata durata ben 7 minuti, è riconducibile alla “logica delle relazioni umane”.E se l’imputato, alla compagna, davanti ai figli, diceva “sei una puttana”, “non vali un cazzo”, “non sei una brava madre”, va “compreso”. Perché è lei a provocare “l’amarezza” causata dalla “dissoluzione della comunità domestica” e in questo contesto “va cercata una delle chiavi di lettura di quel che accadde la sera dell’episodio violento”.“Questo ribaltamento – dice giustamente l’avvocata Teresa Manente, responsabile ufficio legale Differenza Donna – è in contrasto con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia, dalla Convenzione di Istanbul alla giurisprudenza Cedaw e Cedu, che impongono di adottare un approccio centrato sulla vittima e libero da stereotipi sessisti”.Le sentenze si rispettano, ma si possono criticare. E si può e si deve prima di tutto ricercare la causa del perché questa cultura sessista e patriarcale ancora attecchisce e ancora contamina anche persone che per cultura, studi e ruolo ricoperto dovrebbero esserne immuni. E il perché è quello che tante volte abbiamo riaffermato: siamo in una società immersa nel patriarcato in ogni sua struttura sociale, in ogni contesto, in ogni ambito, nessuno escluso, e finché non si deciderà di agire una vera rivoluzione culturale e di investire sull’educazione al rispetto e all’affettività nelle scuole di ogni ordine e grado, e sulla formazione in tutte le facoltà universitarie per comprendere quale sia la vera natura della violenza contro le donne, sentenze come questa che umiliano e offendono non solo Lucia Regna, ma tutte le donne, continueranno ad essere emesse.Ed è per questo che oltre ad esprimerle solidarietà pensiamo che concretamente tante di noi sosterranno Lucia nel caso in cui, come speriamo, voglia ricorrere in appello contro questa sentenza.L'articolo Caso Lucia Regna, le motivazioni della mancata condanna per maltrattamenti lasciano senza parole proviene da Il Fatto Quotidiano.