Con l’approvazione del Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp) da parte del Consiglio dei Ministri, la settimana scorsa, è cominciato il penultimo ciclo dell’iter del bilancio dello stato del governo Meloni. Il nuovo Dpfp manda in soffitta, secondo le nuove regole europee, la vecchia Nota di aggiornamento della finanza pubblica (Nadef). È solo il primo passo di un lungo cammino, ma forse quello più importante perché definisce il quadro generale. Poi ci sarà il confronto con la Commissione Europea e con il Parlamento per arrivare, come di consueto sotto Natale, all’approvazione della legge di bilancio.A leggere il testo della nota governativa, si può dire che la sostanza della politica economica del governo Meloni non è cambiata. In realtà, possiamo intravvedere due novità: una vecchia e un’altra di nuovo conio. La novità già ampiamente annunciata è il rientro del nostro disavanzo annuale sotto la soglia del 3%, in attesa dei dati Istat della primavera prossima. Un risultato importante, ma scontato. Dato ciò, la manovra fiscale di quest’anno non potrà essere scintillante come quella dell’anno scorso che ha messo nelle tasche degli italiani, a debito, 18 miliardi tra riduzioni e sussidi fiscali. Il miracolo non si può ripetere perché si sono esaurite le circostanze che l’hanno consentito. La crescita economica per il 2026 sarà dello 0,7% del Pil e cioè molto modesta. L’inflazione che ha gonfiato generosamente le casse dello Stato, per nostra fortuna, non c’è più.Il populismo fiscale della premier Meloni è rimasto senza risorse, quasi agonizzante, ma è ancora in vita. Rimangono da rispettare, per così dire, le promesse fatte sui due fronti sempre caldi del prelievo fiscale e delle pensioni. La promessa riduzione delle tasse scompare nel Dpfp e appare al suo posto una misteriosa “ricomposizione del prelievo fiscale” sul reddito da lavoro. Tradotto in altre parole, il governo vorrebbe ridurre la seconda aliquota dell’Irpef per i redditi tra i 28.000 e 50.000 euro, provvedimento che, a seconda dell’applicazione, può costare fino a cinque miliardi.Sulle pensioni c’è la grana dell’aumento dell’età pensionabile di tre mesi che, se dal punto di vista di chi ha lavorato per più di quarant’anni è una collinetta, per il duo Salvini-Durigon sembra una montagna da spianare. Anche qui per evitare lo scalino ci vogliono miliardi che non ci sono. E, come al solito, la demografia e la matematica finanziaria smentiscono le corbellerie dei politici di turno.In ogni caso, la manciatina di miliardi (circa 10) che servono è ancora raccolta con i consueti tagli ai servizi pubblici. Aspettiamo l’elenco e poi ne daremo puntualmente conto nelle prossime cronache. Anche perché ci sono da metabolizzare i tagli dell’anno scorso, che richiedono anche quest’anno di essere finanziati. Il buco dei 18 miliardi si presenta ogni anno e fa impallidire quello grillino del super bonus edilizio, tanto strombazzato dalla destra. Almeno quello è stato eliminato. Se poi Meloni fosse stata all’opposizione, l’anno scorso avrebbe tuonato, con la sua voce roca e volitiva, contro le marchette fiscal-elettorali del governo, ma siccome è lei premier vede le cose da un altro punto di vista. I politici italiani sono come le porte girevoli in materia di finanza pubblica. La premier Meloni, tra l’altro, ha cambiato casacca anche nel campo della politica internazionale, diventando in tempi rapidissimi la più fedele seguace di Trump in tutto e su tutto.La vera novità della manovra 2026 ha una dimensione economica limitata, ma non per questo meno preoccupante. Nel documento si attua un primo passaggio da un sistema di welfare a un sistema di warfare, da un sistema che punta a rafforzare la spesa sociale a uno che punta su quella militare. L’unico aspetto che viene specificato nel dettaglio nel Dpfp è l’aumento della spesa militare che salirebbe di 3,5 miliardi nel 2026, di 7 miliardi nel 2027 e di ben 15 miliardi nel 2028. Credo, ma vedremo il bilancio finale dello stato, che nessuna voce della spesa pubblica sarà aumenta in maniera così forte. Meloni si è messa il caschetto per andare in guerra? Sì, obbedendo a quella logica europea che in patria disprezza.Ma la cosa ancora più fastidiosa, anche per i belligeranti convinti, dovrebbe essere il fatto che ben poco di questo incremento di spesa avrà un carattere sovranista, cioè aiuterà l’economia italiana, dato il nostro elevato tasso di importazioni nel settore militare. Con questi soldi ci compreremo probabilmente i servizi della società Palantir o di Elon Musk. Il governo, sapendo di fare un passo falso, ci ha messo anche una ridicola pezza, dicendo che questa spesa sarà fatta solo se le spese militari non ci faranno uscire dalla procedura di deficit eccessivo. Cosa che appare del tutto improbabile, ma qualcosa bisognava pur dire per cercare di nascondere l’obbrobrio.Se quando guidiamo l’auto appare sul cruscotto una spia rossa ci fermiamo subito, perché qualcosa di grave è successo. Il riferimento esplicito ad un aumento della spesa militare è questa spia rossa che si è accesa nei conti dello Stato. Bisognerebbe fermarsi. Procedere in questa direzione è sbagliato per due motivi. Il primo è che non ci sono i soldi e per finanziare i servizi alla difesa dobbiamo tagliare gli altri servizi. Il secondo è che con la spesa militare si sa quando sì inizia ma non si sa quando si finisce. L’appetito dei guerrafondai non ha limite perché il nemico è visto sempre come meglio armato. È la logica perversa dell’escalation militare nella quale è caduta anche la soldatessa Von der Leyen.Il motto dei romani caro ai guerrafondai di destra e di sinistra, si vis pacem para bellum, era appunto quello di una nazione imperialista votata per scelta alle conquiste militari. Non credo che questa vocazione imperialista sia quella della nostra Europa, e dell’Occidente in generale.L'articolo Nel documento di finanza pubblica più spese militari e tagli ai servizi: due motivi per cui è sbagliato procedere così proviene da Il Fatto Quotidiano.