In questi giorni le Camere hanno ricevuto il nuovo Documento programmatico pluriennale (Dpp) della Difesa 2025-2027. La pubblicazione del documento, prodotto dal ministero della Difesa, rappresenta un appuntamento annuale di grande importanza per analizzare le priorità strategiche del Paese, soprattutto in assenza di una vera e propria Strategia di sicurezza nazionale. Dalle previsioni di spesa per le singole Forze armate alle principali priorità per adeguare lo strumento militare, Airpress ha analizzato il documento con il generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa.Generale, che impressione le ha lasciato questo Dpp nel suo insieme?Devo dire che non mi soddisfa completamente. Vedo ancora un approccio molto “single service”, con impostazioni che rispecchiano le singole Forze armate, ma senza una visione realmente interforze. Sarebbe necessario un impulso che indirizzi l’azione verso un obiettivo comune. Un’altra mancanza è quella del rapporto con l’Europa, che non è praticamente menzionato. Io sono convinto che lo sviluppo degli investimenti debba tenere conto delle compatibilità e delle cooperazioni con i nostri alleati, sia nell’Alleanza Atlantica sia nell’Unione europea. Nel Dpp questo non emerge, e in alcuni passaggi — come quando si parla di capacità di accesso allo spazio su base nazionale — si sfiora un certo velleitarismo. Per di più, con un’allocazione complessiva di miliardo e quattrocentomila euro, francamente, non è una cosa seria.E sul piano degli investimenti, come giudica la ripartizione dei fondi tra le diverse Forze armate?Si nota che alla Marina sono riservate risorse inferiori rispetto alle altre Forze armate. È una scelta che considero ragionevole, negli ultimi anni gli investimenti in ambito navale sono stati consistenti e oggi la Forza armata dispone di una flotta dimensionata in modo adeguato. Continuare a costruire navi rischierebbe di portarci al paradosso di avere più scafi in mare che marinai da imbarcare. Nel documento si parla anche di semplificare e rendere più efficiente la catena del procurement. Si tratta di un punto critico?Sì, e lo considero uno dei punti più urgenti. Oggi il rischio è avere programmi approvati e risorse disponibili, ma non riuscire a firmare le commesse perché la contrattualistica è troppo complessa e i passaggi amministrativi e di controllo sono pressoché infiniti. Bisogna snellire le procedure senza perdere trasparenza né garanzie, ma consentendo contemporaneamente una maggiore rapidità d’azione. Mi domando sinceramente se il Segretario generale della Difesa e le direzioni nazionali competenti abbiano la capacità di seguire e monitorare con efficacia tutti i programmi previsti, visto che il volume di lavoro è enorme. Senza una revisione amministrativa seria, il sistema rischia di bloccarsi su sé stesso.Dopo il vertice dell’Aja, gli Alleati Nato hanno concordato l’obiettivo del 5% del Pil per la difesa entro il 2035. L’Italia potrà rispettarlo?Io non credo che il “3,5 più 1,5%” risponda a una logica sensata. Il punto non è partire dalle cifre, ma capire quali capacità si vogliono davvero conseguire. Quanti soldi servano, di conseguenza, è una derivata, non il punto di partenza. Partire dalla questione finanziaria è, a mio avviso, un errore concettuale. Le cifre che vedo sono in crescita, e va bene, ma bisogna poi essere in grado di spenderle. Torniamo quindi al tema della capacità amministrativa e industriale: serve che l’industria nazionale sia in grado di rispondere in tempi rapidi e che la politica definisca una vera strategia industriale della difesa, non solo inseguendo le esigenze del momento.Il Dpp punta a un modello di personale da 160mila unità entro il 2034. È un obiettivo realistico?È un obiettivo lontano, e a mio parere anche poco ambizioso. Capisco le difficoltà del reclutamento e della gestione del personale, ma fissare oggi un traguardo a nove anni di distanza significa rinviare il problema. Dobbiamo cercare soluzioni più immediate. In molti Paesi europei il tema è tornato centrale, perché dopo aver ridotto drasticamente gli organici ora si fatica a ricostruirli. È molto più facile costruire un aereo che formare il personale di una brigata.Infatti, diversi Paesi europei stanno valutando, chi in un modo chi in un altro, una reintroduzione della leva militare. Ritiene che anche l’Italia dovrebbe valutarla?Quanto all’ipotesi di reintrodurre la leva, la considero fuori da ogni fattibilità e accettabilità nel quadro politico e sociale italiano. Bisogna piuttosto lavorare su incentivi concreti all’arruolamento e su solide garanzie di impiegabilità dopo il servizio. Solo così il percorso militare può diventare un valore aggiunto per chi lo intraprende.Il documento riserva grande attenzione ai droni e alle nuove tecnologie. È un cambio di passo coerente?Direi che è una presa d’atto della realtà. Le operazioni in Ucraina, ma anche in altri teatri, hanno dimostrato le potenzialità enormi dei droni. È un settore dove esistono competenze nazionali solide, buoni prodotti e cooperazioni internazionali da sviluppare con determinazione. L’enfasi è dunque giustificata. L’unico rischio è quello di essersi svegliati un po’ tardi. E bisogna stare attenti a non cadere nell’illusione tecnologica. La tecnologia è straordinaria, ma non risolve da sola tutti i problemi. Non pensiamo che sia la panacea di tutti i mali.Lei sostiene anche la necessità di ripensare l’intelligence militare. Perché?Perché oggi il collegamento tra il livello operativo e chi deve fornire le informazioni non è più sufficiente. La riforma che anni fa ha escluso i servizi di intelligence (l’ex Sismi, ndr.) dalla catena di comando del ministero della Difesa aveva una sua logica all’epoca, ma nel tempo ha indebolito la capacità delle Forze armate di disporre di un proprio sistema informativo efficace. All’inizio le persone erano le stesse, quindi i contatti personali supplivano al cambiamento. Ora, con il ricambio generazionale, quel tessuto si è dissolto. Il dialogo operativo non è più fluido come dovrebbe. Serve una riflessione seria per restituire all’intelligence una specificità militare, oggi sostanzialmente perduta.In conclusione, che tipo di visione strategica nazionale emerge da questo Dpp?Quello che emerge, ancora una volta, è che manca una strategia nazionale esplicita. È un problema noto da tempo, considerando che l’Italia non ha ancora un documento di strategia che orienti la sua politica estera e di difesa. Ci si affida all’appartenenza alla Nato e all’Unione europea, ma non basta. Serve un riferimento chiaro, che fissi gli interessi nazionali e guidi l’elaborazione successiva. Io stesso partecipo a un gruppo di lavoro promosso dalla Fondazione Leonardo, presieduto da Luciano Violante, che sta affrontando proprio questo tema. Perché senza una base strategica definita, ogni documento — anche se ben fatto sotto il profilo tecnico — rischia di restare privo di coerenza complessiva.