Il gioco della democrazia e il punto di non ritorno

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di Gianvito Pipitone – C’è un gioco che appartiene all’infanzia e che ritorna, quasi intatto, nell’età adulta: aprire un atlante e lasciarsi trascinare dalle forme dei confini, dalle bandiere, dalle capitali improbabili. Quel gioco, che oggi ripeto con mio figlio, si trasforma in una domanda più grande: quale può essere il paese più democratico del mondo? E dov’è quel posto dove i nostri diritti sono meglio tutelati e la nostra libertà rispettata?La risposta, com’è evidente, non può mai essere definitiva: la democrazia non è una statua immobile, come la Statua della Libertà, ma un organismo vivo che respira, si ammala, guarisce e talvolta arretra pericolosamente. La sua diagnosi pertanto non può ridursi a un calcolo scientifico, perché gli indicatori da valutare sono molteplici e variano in relazione ai diversi ordinamenti politici interni. Tuttavia esistono osservatori che provano a misurarne lo stato di salute – da The Economist ad altri centri di analisi – offrendo mappe e classificazioni che, pur utili, restano comunque sempre parziali.Per dare un minimo di ordine a questo gioco, ci affidiamo al Democracy Index, elaborato da The Economist, che ogni anno misura lo stato della democrazia in 167 paesi attraverso una griglia di indicatori: dal processo elettorale al funzionamento del governo, dalla partecipazione politica alla cultura democratica, fino alle libertà civili.Il Democracy Index 2024, pubblicato all’inizio dell’anno, ha registrato un nuovo calo globale: il punteggio medio è sceso a 5,17, il livello più basso da quando l’indice è stato creato nel 2006. In breve, solo il 45% della popolazione mondiale vive in una democrazia, mentre il 39% è sotto regimi autoritari e il restante 15% in sistemi ibridi. In cima alla classifica restano i paesi nordici: la Norvegia con 9,81, seguita da Islanda, Svezia e Finlandia. All’opposto, l’Afghanistan con 0,26, insieme a Corea del Nord e Myanmar, rappresenta il volto più cupo dell’autoritarismo.L’Italia, insieme a Francia e Stati Uniti, si colloca al 37º posto, nel gruppo delle democrazie imperfette, con un punteggio attorno a 7,8. Significa che da noi la democrazia funziona così così: il sistema elettorale funziona, ma non basta, dal momento che ormai a vincere è l’astensionismo; che le libertà civili sono garantite, ma sotto pressione; che la partecipazione politica è reale, ma fragile, perché percepita lontana dai cittadini.Gli indicatori più sensibili sono, in primis, il funzionamento del governo, segnato da conflitti continui con istituzioni di garanzia come la Corte dei Conti e la magistratura; le libertà civili, messe alla prova da tensioni con la stampa e dall’occupazione degli spazi mediatici pubblici; la cultura politica, segnata da polarizzazione e sfiducia reciproca tra cittadini e istituzioni; la partecipazione politica, che soffre il calo dell’affluenza elettorale e la disaffezione verso i partiti.Ed è proprio su questo terreno che si innesta l’analisi di Massimo Giannini, pubblicata ieri su Repubblica. In un articolo puntuale, Tutti i rischi della democrazia, Giannini ha descritto con precisione chirurgica la deriva istituzionale del governo Meloni: “Attacca i tribunali che intralciano l’operazione Albania, la Corte dei Conti che blocca il Ponte sullo Stretto, bastona le procure che invadono il campo della politica sui grattacieli a Milano, sulla sicurezza nelle città, sull’Ilva a Taranto. Nel frattempo occupa la Rai, ordina ai suoi maggiordomi in servizio permanente effettivo presso il Garante della Privacy una multa folle a Ranucci, ignora le domande dei giornalisti, insulta l’Istat che la massacra e la Cgil che sciopera.” Una sequenza, incorniciata da virgolette, che nella sua crudezza, mette in luce il nodo centrale del problema: sono compatibili questi comportamenti con una buona democrazia?Non si può non ricordare, in questo contesto, con le dovute differenze del caso, il nostro passato recente: il lungo ciclo dei governi Berlusconi. Fu proprio lui, a suo modo, il primo a ingaggiare una lotta senza fine con le istituzioni dello Stato, dipingendosi di volta in volta come vittima designata di magistrati, procure e organi di controllo. La narrazione del “complotto giudiziario” e della “persecuzione politica” divenne parte integrante della sua strategia di consenso, alimentando una polarizzazione che ha lasciato tracce profonde nella cultura politica italiana.Oggi, con le posture della Premier Meloni e dei partiti che la sostengono, riecheggiano i fantasmi del passato berluscinismo: nuove forme e nuovi protagonisti ripropongono la stessa logica di fondo, quella di delegittimare i contrappesi istituzionali per concentrare il potere nelle mani dell’esecutivo. È un copione già visto, che muta linguaggi e strategie ma conserva l’obiettivo essenziale: ridurre lo spazio del controllo democratico e trasformare la dialettica tra poteri in un ostacolo da aggirare.Tornando al gioco dell’atlante, quello che possiamo scorgere adesso è una geografia divisa: da un lato paesi che consolidano istituzioni e diritti, dall’altro realtà più duttili che li erodono. L’Italia, sospesa tra poli contrastanti, non solo appare incapace di compiere il salto verso una democrazia compiuta, ma nei suoi movimenti disordinati sembra avvicinarsi pericolosamente a un punto di non ritorno.Come infatti ha scritto Gustavo Zagrebelsky: “La democrazia è inconciliabile con la pretesa di una parte di possedere la verità e imporla agli altri. Questa pretesa sarebbe non democrazia, ma autocrazia.” Una frase che illumina con chiarezza il rischio di concentrazione del potere e la necessità dei contrappesi istituzionali.Chissà cosa ci riserverà la nuova edizione dell’Index, in uscita a febbraio 2026, che prenderà in esame quest’ultimo disgraziato anno. Con i colpi mortali che Trump sta infliggendo alla libertà negli Stati Uniti, e che rischiano di trascinare in una spirale di autarchia – e quindi nell’autoritarismo – gli stati con anticorpi più deboli, la domanda finale resta sospesa: riusciremo a difendere davvero il bene più fragile e prezioso che abbiamo?A giudicare dai toni in aula, e fuori, non c’è da stare allegri. Manco per niente.