di Paolo GalloCi sono vicende che, pur nella loro complessità diplomatica, non possono essere ridotte a un faldone che giace su una scrivania ministeriale. Restano, prima di tutto, storie umane che interrogano un Paese intero sulla propria capacità di cura. Una di queste è il caso di Alberto Trentini, cooperante italiano detenuto da mesi in Venezuela, circondato da un silenzio istituzionale che pesa come una coltre immobile. Uno stallo che non si misura sui documenti, ma sulle vite. E su una in particolare: quella di una madre che aspetta.Al di là delle dinamiche diplomatiche e delle comunicazioni riservate, ciò che colpisce oggi è la sensazione di sospensione che avvolge questa vicenda. Un vuoto informativo che si traduce in un vuoto emotivo, lasciando la famiglia di Alberto intrappolata in un’attesa senza appigli, senza date, senza spiegazioni. In situazioni come questa, persino l’assenza diventa una notizia; persino il silenzio assume il peso di una condanna.È comprensibile che la diplomazia richieda prudenza, che non tutto possa essere dichiarato pubblicamente e che alcune trattative si muovano solo nell’ombra. Ma esiste una linea oltre la quale la prudenza rischia di trasformarsi in una percezione di inerzia. E quando questa percezione arriva ai cittadini, e soprattutto a una madre che non può più raggiungere suo figlio né sapere come sta, lo Stato è chiamato a un gesto di prossimità prima ancora che a uno di forza.Nessuno pretende soluzioni immediate o gesti plateali. Le relazioni internazionali non si governano con gli slogan. Ma è legittimo chiedere continuità, chiarezza, visibilità dell’impegno. È legittimo pretendere che il caso di Alberto Trentini non scivoli nella zona grigia delle storie sospese, né venga lasciato a galleggiare in un limbo fatto di rassicurazioni generiche e attese indefinite. Perché la sensazione di essere soli, quando è in gioco la libertà e la salute di un cittadino italiano, è un peso che una famiglia non dovrebbe portare da sola.Finora, la voce più forte non è stata quella delle istituzioni, ma quella di una madre che non chiede privilegi: chiede semplicemente che suo figlio non venga dimenticato. E questo, in una democrazia, non è un favore: è un diritto. Lo Stato deve proteggere i suoi cittadini, e deve farlo anche — e soprattutto — quando la strada è complicata.Un Paese non si misura soltanto dalla capacità di affrontare le grandi crisi globali, ma dalla volontà di non lasciare indietro nessuno. Di non permettere che il silenzio diventi la risposta definitiva. Di far capire che, anche quando le soluzioni tardano, l’impegno non si ferma.Perché nulla è più ingiusto dello stallo quando a pagarne il prezzo è chi ha già perduto le certezze fondamentali: la serenità, il tempo, la voce del proprio figlio. Oggi, più che mai, serve un segnale chiaro che lo Stato c’è. E che non intende lasciare sola la famiglia di Alberto Trentini.Il blog Sostenitore ospita i post scritti dai lettori che hanno deciso di contribuire alla crescita de ilfattoquotidiano.it, sottoscrivendo l’offerta Sostenitore e diventando così parte attiva della nostra community. Tra i post inviati, Peter Gomez e la redazione selezioneranno e pubblicheranno quelli più interessanti. Questo blog nasce da un’idea dei lettori, continuate a renderlo il vostro spazio. Diventare Sostenitore significa anche metterci la faccia, la firma o l’impegno: aderisci alle nostre campagne, pensate perché tu abbia un ruolo attivo! Se vuoi partecipare, al prezzo di “un cappuccino alla settimana” potrai anche seguire in diretta streaming la riunione di redazione del giovedì – mandandoci in tempo reale suggerimenti, notizie e idee – e accedere al Forum riservato dove discutere e interagire con la redazione. Scopri tutti i vantaggi!L'articolo Alberto Trentini in Venezuela: lo Stato non lasci sola la sua famiglia proviene da Il Fatto Quotidiano.