Sudan. Armi europee nel conflitto: la guerra che ritorna in Europa

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di Giuseppe Gagliano –L’avvertimento lanciato dall’ambasciatore sudanese presso l’Unione Europea, Abdelbagi Kabeir, non è uno dei tanti appelli provenienti dall’Africa orientale. È il segnale di una responsabilità diretta che ricade sulle capitali europee: armi prodotte in vari Paesi dell’UE stanno alimentando una delle guerre più brutali del continente africano, quella che dal 2023 oppone le Forze Armate Sudanesi (SAF) alle Forze di Supporto Rapido (RSF). Secondo il diplomatico, la tracciabilità degli armamenti porta ai partner del Golfo, in particolare gli Emirati Arabi Uniti, sospettati da anni di rifornire i paramilitari di Hemedti. Una triangolazione che, sulla carta, non dovrebbe esistere: l’UE ha imposto un embargo sul Sudan già negli anni Novanta e lo ha rafforzato nel 2014.Eppure i proiettili bulgari, le blindature emiratine dotate di tecnologia francese e perfino equipaggiamenti di fabbricazione britannica continuano ad affiorare sul campo di battaglia. L’Europa parla di stabilità, ma esporta instabilità.Il caso messo in luce da France24 è emblematico. Munizioni prodotte in Bulgaria, vendute legalmente agli Emirati e poi finite nelle mani dei combattenti delle RSF. Sofia sostiene che nessuna riesportazione fosse autorizzata, come vuole la Posizione Comune 2008/944/CFSP, che vieta il trasferimento verso Paesi sotto embargo senza permessi specifici. Ma proprio qui sta la contraddizione: l’UE non ha giurisdizione extraterritoriale e non può impedire fisicamente che un Paese terzo rivenda ciò che ha acquistato.Il risultato è un paradosso: l’UE fissa regole stringenti, ma poi affida la loro applicazione alla buona volontà dei suoi clienti. E quando le prove dimostrano che le armi hanno preso altre strade, Bruxelles non può fare altro che minacciare sospensioni future.Abu Dhabi nega di aver sostenuto le RSF. Ma la rete economica che lega la famiglia Hemedti agli Emirati, le indagini ONU e le sanzioni del Dipartimento del Tesoro statunitense mostrano un’altra realtà: un flusso costante di denaro e armamenti, mascherato dal commercio dell’oro proveniente dalle miniere controllate dai paramilitari sudanesi.A novembre un’importante ammissione da parte del diplomatico Anwar Gargash ha incrinato la narrativa ufficiale degli Emirati: non aver imposto sanzioni dopo il colpo di Stato del 2021 è stato un errore. Una frase che, letta tra le righe, riconosce che gli Emirati hanno avuto un ruolo nella deriva sudanese e nella legittimazione progressiva delle RSF.Kabeir, che rappresenta il governo legittimo riconosciuto a livello internazionale, chiede all’UE una posizione netta. La fine delle riesportazioni, la pressione diplomatica verso Abu Dhabi e una revisione delle sanzioni che colpiscono le Forze Armate Sudanesi. Per il diplomatico, continuare a trattare allo stesso modo RSF e SAF sarebbe una scelta miope, perché indebolirebbe l’unica istituzione capace, secondo Khartoum, di ristabilire un minimo di ordine.Il problema è che il Sudan non è solo una crisi africana. È un passaggio obbligato per comprendere i futuri flussi migratori verso il Mediterraneo. L’instabilità nel Darfur, il controllo del Triangolo di Uwaynat da parte delle RSF e il crescente coinvolgimento libico creano un corridoio di instabilità che arriva fino alle coste europee.Un’inchiesta di Radio France Internationale ha documentato il transito di convogli armati attraverso la Libia: centinaia di veicoli, blindati e motociclette diretti verso il Darfur. Le RSF hanno basi a Kufra, dove riparano mezzi, ricevono rifornimenti e riorganizzano i combattenti. Qui, il triangolo geopolitico tra Egitto, Sudan e Libia diventa una zona grigia, dove interferenze straniere e traffici di ogni tipo prosperano.Il Cairo osserva con apprensione questa evoluzione, tanto da convocare d’urgenza il generale Haftar. Il rischio è evidente: la Libia sta tornando ad essere non solo una piattaforma di traffici, ma un moltiplicatore di guerre africane.L’UE ribadisce di avere criteri rigorosi sull’export militare e minaccia misure restrittive contro chi alimenta la guerra. Ma, allo stesso tempo, continua a intrattenere rapporti economici strategici con gli Emirati Arabi Uniti, tra i principali acquirenti di armamenti europei.È questa distanza tra parole e fatti che rende l’Europa vulnerabile. Perché ogni proiettile europeo esploso a El-Fasher o a Khartoum è un argomento nelle mani di chi, nel Sud globale, denuncia il doppio standard occidentale.L’avvertimento finale di Kabeir è semplice: ciò che accade nel Sahel e nel Corno d’Africa arriva sempre nel Mediterraneo. Migrazioni, traffici, milizie, collasso statale: tutto converge verso l’Europa. E ignorare il ruolo delle sue stesse armi significa preparare la prossima emergenza senza aver compreso la precedente.