di Giuseppe Gagliano –La Libia resta sospesa tra passato e futuro. A quasi quindici anni dalla caduta di Gheddafi, il Paese continua a essere una cerniera instabile tra le crisi africane e il Mediterraneo europeo. Tripoli, che conserva il riconoscimento internazionale, tenta oggi una mossa ardita: cercare l’appoggio dell’amministrazione Trump per contenere l’influenza di Russia, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, sostenitori del governo rivale guidato dal feldmaresciallo Haftar. È un gesto che racconta molto della fragilità libica e dell’ambizione americana di ridisegnare le aree d’influenza nel Mediterraneo allargato.La parabola libica è una lunga altalena di speranze e ricadute. Nel 2011 l’intervento NATO chiuse il capitolo Gheddafi, ma aprì un vuoto che nessuno seppe colmare. Il primo passaggio di potere del 2012 sembrò una promessa, cancellata dalle nuove elezioni del 2014, quando il Paese si spaccò in due parlamenti, due governi, due visioni. Da un lato Tripoli, dall’altro Tobruk, con Haftar come uomo forte dell’Est, deciso a imporsi con un esercito parallelo sempre più strutturato.Il cessate-il-fuoco del 2020 aveva lasciato immaginare una ricomposizione, ma l’anno successivo la Camera dei Rappresentanti rigettò il mandato del GNU e creò il Governo di Stabilità Nazionale, consolidando il dualismo istituzionale.La politica libica non si gioca solo a Tripoli e Bengasi. Da anni attori esterni hanno trasformato lo scontro in un banco di prova delle proprie ambizioni. La Turchia sostiene Tripoli con droni, consiglieri e un patto militare che ha bloccato l’avanzata di Haftar nel 2019. Mosca, dal canto suo, ha ricalibrato la presenza del gruppo Wagner trasformandolo nell’Africa Corps, con basi operative nell’est libico per controllare rotte, spazi aerei e affacci strategici sul Mediterraneo.Gli Emirati Arabi Uniti perseguono una logica diversa ma altrettanto incisiva: porti, banche, logistica. Il controllo delle infrastrutture libiche significherebbe entrare nella filiera petrolifera e finanziaria del Paese. L’Egitto, infine, difende la sua frontiera occidentale e vede in Haftar un argine contro instabilità, traffici e possibili infiltrazioni jihadiste.Di fronte a questa pressione multipla, Tripoli decide di spostare il gioco su un terreno più alto. L’obiettivo dichiarato è persuadere gli Stati Uniti a esercitare una leva politica e diplomatica sugli avversari regionali del GNU. L’offerta è chiara: aprire a investimenti, soprattutto nel settore petrolifero, e garantire una cooperazione strategica che rafforzi la presenza NATO nel Mediterraneo. La promessa più ambiziosa è una partnership economica da decine di miliardi di dollari, puntando sul carattere transazionale della politica estera trumpiana.Da qui nasce anche l’idea, coltivata da Washington, di includere la Libia in una possibile nuova espansione degli Accordi di Abramo. Una prospettiva oggi remota, ma significativa per misurare l’interesse americano a riavvicinare Tripoli al proprio campo.La crisi libica non è isolata. Il collasso del Paese nel 2011 ha alimentato la militarizzazione del Sahel, la ribellione in Mali e la crescita delle milizie jihadiste. Haftar è stato accusato di sostenere le Forze di Supporto Rapido in Sudan, contribuendo a un conflitto che ha generato milioni di sfollati. Molti di loro si dirigono proprio verso la Libia, sfruttando confini permeabili e un sistema statale frammentato. Le partenze verso l’Europa, quasi sempre dalla costa libica, continuano a crescere a ritmo sostenuto.Per gli Stati Uniti e per l’Europa questa instabilità rappresenta una minaccia diretta. Il Mediterraneo centrale resta la rotta migratoria più critica dell’intero continente e la Libia non ha un’autorità unica in grado di controllarla.Nell’Est, Haftar consolida la propria presa sul potere attraverso i figli, posizionati in ruoli chiave dell’apparato militare e politico. A ovest, Dbeibah affronta la pressione di islamisti, milizie locali e rivalità interne che spesso mettono a rischio anche la sicurezza delle infrastrutture petrolifere. In mezzo ci sono i grandi giacimenti di un Paese che resta tra i più ricchi d’Africa, ma incapace di trasformare queste risorse in stabilità.L’offensiva diplomatica di Tripoli verso Washington non è solo la ricerca di un alleato. È un tentativo di riscrivere gli equilibri regionali in un momento in cui Africa, Medio Oriente ed Europa si intrecciano come mai prima. Se gli Stati Uniti decideranno di impegnarsi davvero, la Libia potrebbe tornare a giocare un ruolo diverso. Ma se prevarrà la competizione tra potenze regionali e globali, il rischio è che il Paese rimanga ostaggio di un conflitto a bassa intensità che logora istituzioni, economie e società.In Libia il tempo non scorre: si accumula. E ogni mese che passa rende più complessa la ricostruzione di un equilibrio che, per ora, sembra lontano.