Il gusto di essere Ele A (nel rap)

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La frase fulminante l’aveva tirata fuori il compianto Roberto “Freak” Antoni degli Skiantos: “Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti”. Eh. Parafrasando un po’, ad un certo punto sembrava che una simile architettura concettuale fosse perfetta pure per la musica rap, qui da noi, e non solo qui da noi: quando all’improvviso pareva cioè che l’unico, ineludibile denominatore comune per funzionare nel genere fosse ridurre all’osso i concetti e la capacità di pensare in modo articolato, mugugnando onomatopee, semplificando in modo brutale ed alla pene di segugio metriche e flow. Forse ci siamo dentro ancora; forse anche – e noi lo pensiamo – comunque anche in molto rap all’apparenza rozzo, brutale e pedestre c’è tuttavia una urgenza espressiva che è preziosa o comunque ha un suo perché; ma soprattutto, ed è questo il punto, il rap è diventato talmente onnipresente nel nostro panorama sonoro che ha (ri)guadagnato la possibilità di essere posato, articolato, ci verrebbe da dire adulto (…l’importante è che non diventi didascalico o stancamente pedagogico). C’è spazio per tutti, insomma.Avremo modo di parlare del bellissimo disco che ha fatto uscire in questi giorni Moder, ma una delle voci più educate ed interessanti uscite nell’ultimo periodo sulla scena con una certa rilevanza è quella di Ele A. Che italiana non è tra l’altro, tecnicamente sarebbe infatti svizzera, ma l’Italia è da sempre il suo principale campo d’elezione artistico, espressivo e professionale. È in Italia che è diventata importante, è italiana la major che l’ha messa sotto contratto (è nel parco label della Universal); ed è a Milano che la ritroviamo, per una bella chiacchierata che è esattamente come il suo rap: distesa, chiara, mai presuntuosa, ben articolata. Ecco, Ele A da tempo è una gemma per tutti gli appassionati di rap intelligente, ovvero un rap da cui per anni le case discografiche grosse coi loro investimenti grossi si sono tenute alla larga – appunto, funzionava l’esatto contrario, come dargli torto. Ma il vento sta cambiando. Forse. Parliamo con lei anche di questo. Partendo dal presupposto che Ele non è più la intrigante promessa dell’underground che conoscono in pochi, ma un artista con la sua fitta routine promozionale legata alla release di un album, “Pixel”. Routine ben pianificata da un ufficio stampa e da svolgere nei salotti del grattacielo di una multinazionale. E quindi: c’è gusto, nel rap e nelle major, ad essere intelligenti?Eccoti, sei entrato nel grande meccanismo della routine promozionale, con “Pixel”. Questa nostra chiacchierata ne fa parte. Quanto è divertente ritrovarsi a fare tutte queste interviste, una dietro l’altra?A me sinceramente non dispiace. Mi interessa, sentire cosa uno ha voglia di chiedermi. Chiaro, ogni tanto ci sono le domande classiche e prevedibili, quelle tipo “Ma quando hai iniziato a fare musica?”, ma capisco che pure questo può avere un senso. Anche se è vero: ogni tanto su certe interviste mi chiedo “Ma davvero c’è bisogno di questo? Davvero dobbiamo mettere tutto su un piano così banale?”. Se la domanda fosse fatta a me, la risposta sarebbe ovviamente no. Perché se ho un artista preferito, dopo un po’ mi annoierebbe leggere sempre le stesse cose. Evidentemente però funziona oggi anche in un altro modo. Funziona che in questo nostro sistema capitalistico la quantità vince sempre sulla qualità. E vale anche per la comunicazione fatta via Instagram, non solo per i media: anche lì vedo molte cose prevedibili, poco approfondite. Ma se ci sono, è perché la gente le vuole – o comunque si è abituata ad averle, le trova in qualche modo comode.A proposito di capitalismo e di comodità, come ti stai trovando ora che sei finita su major?È strano, è strano. Per certi versi è anche un po’ doloroso: perché ti rendi conto che se vuoi ottenere un certo tipo di risultati e lasciare un certo tipo di traccia, devi comunque scendere ad alcuni compromessi rispetto ad alcuni tuoi principi. E non parlo attenzione solo di major, di etichette discografiche di un certo tipo, che in realtà di loro sanno essere super utili; il discorso è più vasto, più generale. Io sono contentissima di essere dove sto, come etichetta. Ho aspettato tantissimo prima di firmare, perché ci tenevo a scegliere bene. E ora, sono contentissima della scelta che ho fatto. Ho un bellissimo team di lavoro attorno a me. Se avessi scelto in modo più frettoloso e superficiale, probabilmente ora sarei molto più triste, molto più scontenta, te l’assicuro. Ma estendendo il discorso, anche le major fanno parte di un sistema, inevitabilmente. E fare parte di un sistema, è sempre un’esperienza particolare.Quello che hai trovato in questo sistema è più o meno quello che ti aspettavi, o…?Beh, io mi ero informata tantissimo.Lo immaginavo. Per quel poco che ti conosco, mi sono fatto l’idea che sei una persona maledettamente precisa.Ma sai, non l’ho fatto per difendermi, perché partissi prevenuta o temessi chissà cosa… L’ho fatto per informarmi. E, soprattutto, tutelarmi. Quando sei informato, quando sai quello che potresti incontrare, viene poi tutto poi facile, e ti metti nella condizione di fare le valutazioni più corrette per te. Devo dire che sono rimasta piacevolmente sorpresa: ho scoperto che anche ora che sono in major l’ultima parola continua ad essere la mia. So che sembra una cosa scontata……in realtà non lo è.Esatto! Non lo è. Più finisci in una realtà grande, più dovrebbero aumentare le possibilità che qualcuno conti più di te, no? Un po’ l’avevo la paura che ad un certo punto qualcuno entrasse in studio e dicesse “Eh, ma questo ritornello forse è meglio farlo in un altro modo, che funziona di più”. Per fortuna nulla di tutto questo è successo.Nessuno ci ha mai provato?No.Anche perché magari se ci provavano li fulminavi con lo sguardo.Ma neanche quello, sai? Alla fine ognuno cerca di fare del suo meglio. Io mi metto nei panni di un discografico, capisco che ad un certo punto lui deve rendere conto dei risultati che ottiene. Ma è una questione di rispetto dei ruoli: io non andrei mai da lui a dirgli come fare meglio il suo lavoro imponendo a forza la mia visione, quindi trovo corretto lui non lo faccia col mio. Credo sia importante mantenere un minimo di protezione, di sacralità per la sfera creativa. Questo per me è un punto decisivo.(La sacralità dei “Pixel”; continua sotto)Però fammi fare l’avvocato del diavolo: arrivi in major, ed ecco che arrivano improvvisamente un bel po’ di featuring di peso: featuring a cui non saresti arrivata, probabilmente, se non fossi sotto contratto dove sei.Assolutamente.Ma almeno in questo campo, hai ricevuto dei – come dire – suggerimenti, sei stata in qualche modo indirizzata, oltre che aiutata?Inizio col dire che io sono una persona che non pensa tanto ai featuring, quando si mette a scrivere: probabilmente perché li sottovaluto, o mi sottovaluto. Cioè, non è che chiudo un pezzo e poi mi dico “Eh, questo potrei mandarlo a Marra” – facciamo un nome a caso, per capirci – e questo perché in qualche modo parto ancora dal presupposto che “…figurati se a Marra può interessare fare un featuring con me”. Capisci? Al tempo stesso, la cosa buona è che anche adesso tutto il team che mi sta attorno non mi ha mai proposto dei brani costruiti-apposta-per: quei brani insomma che chiamano dei featuring ben precisi, dichiarati e voluti in partenza. Prendi il brano con Gaia: nasce in realtà da un provino del 2022, originariamente su un altro beat che non mi convinceva del tutto. Lo abbiamo cambiato, e sentito quello nuovo sono stata io a pensare “Accidenti qua sì che ci starebbe bene una voce femminile” e sono stata io la prima a dire “Oh, qua ci starebbe tanto bene Gaia, adoro il suo timbro, il modo in cui fa le armonie”. Non mi è stata suggerito o peggio ancora imposto da altri, insomma.Com’è lavorare con Night Skinny?Una hit! Lui è davvero uno che sa motivarti: ha quella vibe “americana”, ti spinge davvero a pensare “Sì, dobbiamo spaccare!”, ti dà proprio la fame giusta nel fare le cose.  Che poi attenzione, non è che ti mette pressione direttamente, no; anzi, ti mette subito molto a tuo agio, ti dice “Prenditi tutto il tempo che ti serve”. Però in qualche modo riesce a tirare fuori da te quell’urgenza “cruda”, che è tipica dell’attitudine hip hop.Tu sei una veloce a scrivere?È strano: vado a periodi. Ci sono dei momenti in cui suono super ispirata, e mi capita di lavorare a più pezzi contemporaneamente – ma tipo cinque pezzi in tre ore, capisci? Spostandomi continuamente dall’uno all’altro…Che ansia. Che fatica. Mi pare perfino un po’ troppo.Ma no! Guarda, è più faticoso ad immaginarlo che a farlo davvero, almeno per quanto mi riguarda… È come quando all’improvviso ti viene un flusso di coscienza, un flusso così forte che non riesci a fermarlo, e nemmeno vuoi provare a farlo: quando è così, è tutto facile. E io ho questi momenti. Ce ne sono altri invece dove mi convinco proprio che l’ispirazione non c’è, quindi non produco nulla, e anche se produco qualcosa mi viene subito da pensare “Boh, ma farà schifo”. Quindi, riassumendo: se mi arriva il beat giusto e sono nella fase giusta, posso fare un pezzo in mezz’ora; se questo non accade, posso invece essere molto molto lenta.Domanda: senti addosso il peso della responsabilità? Mi spiego meglio: ti è stato ritagliato addosso questo personaggio della rapper conscious, intelligente sempre, che articola bene i concetti  e non dice solo le solite quattro robe smozzicate in croce… È un ruolo che può diventare faticoso da portare avanti. Può diventare una maschera, una costrizione.Mah sai, io scrivo come scrivo… Proprio l’altro giorno sentivo il brano di un ragazzo emergente, anche figo come brano, anzi, molto figo. Però nel testo sembrava che avesse seguito il tutorial su cosa bisogno dire nel 2025 in un testo rap, quali i brand da citare, quali le immagini da evocare… E allora mi sono chiesta: ma possibile che non te ne accorgi? Non ti dà fastidio questa cosa? Non ti dà fastidio che fai esattamente quello che già altri stanno facendo da un po’, davvero proprio la stessa cosa? Questo aspetto oggi secondo me è ancora più importante e risalta ancora di più, perché la nuova roba comunque nasce come molto originale, ha cioè davvero rinnovato i linguaggi della scena – ed ha ancora moltissimi margini per farlo. Puoi anche citare i marchi, non è quello il punto; il problema non sono i marchi, ma citare sempre i soliti, e nel solito modo. Sayf ad esempio ne ha citato uno che di solito non si cita mai, Carrera, e così ha messo all’attenzione un immaginario completamente nuovo, diverso dagli altri. Poi, non è che si può essere sempre originali… Capita a tutti di scrivere delle cose banali, già viste, già sentite. A me per prima. Ma quando lo faccio, lo capisco abbastanza presto – e non ne vado orgogliosa. Cerco di stare attenta a non farlo più.Puoi anche citare i marchi, non è quello il punto; il problema non sono i marchi, ma citare sempre i soliti e nel solito modoQuanto ti condizionano i numeri? Te lo chiedo perché questo tema è diventato ricorrente in maniera quasi sospetta: tutti a dire “Eh, basta con la schiavitù dei numeri, basta guardare a quante view fai, qunti dischi d’oro riesci ad avere”, bene, bravi, poi però in realtà è una cosa a cui tengono tutti. E appena ne hai qualcuno di cui vantarti, di numeri, ne fai sfoggio nelle story, sui post, nei comunicati stampa, come non ci fosse un domani. Come se i numeri fossero davvero in fondo l’unica cosa che conta, l’unica che ti caratterizza.È strana questa cosa: perché quando sento un artista che mi piace, l’ultima cosa a cui vado a pensare è se abbia o non abbia numeri di un certo tipo. Al massimo ciò che mi colpisce di più è quando vedo qualcuno che mi piace che è ancora poco conosciuto, poco ascoltato… È lì mi chiedo: com’è possibile? Però, guarda, non mi sono ancora convinta che numeri uguale qualità. No. Non credo sia così. Anche se inconsciamente è quello che pensano in tanti, vero. Tipo “…se non ho fatto 30.000 like a post o 1.000.000 di stream a pezzo, beh, allora vuol dire che sto sbagliando qualcosa”. Il problema è che questa preoccupazione sui numeri rischia di influenzarti anche quando non dovrebbe. Inizi a farti troppe domande, tipo: ma non è che potevo fare meglio la promo? Non è che  potevo espormi di più? Però sono domande che c’entrano poco con la musica. Forse bisognerebbe toglierli, i numeri, da tutte le piattaforme. Sai quali sono i numeri che secondo me contano davvero?Quali?Quelli dei live. Perché live sono numeri veri. Numeri che vedi, che sono lì di fronte a te, che puoi contare… Se mi chiedi qual è il mio vero obiettivo, la risposta è: fare sempre più gente ai concerti. Arrivare al Forum, magari. Provare quell’emozione lì.Ma non è che nei Forum si rischia di perdere proprio quello di cui in parte parlavi, ovvero il contatto diretto col pubblico?Non lo so. Non credo. Guarda, poche settimane fa ero al concerto di Madame, su, in balconata, e vedere tutte quelle persone che si muovono tutte assieme, cantano tutte assieme, è qualcosa di una potenza incredibile…Vero.E poi, grazie a Mace e Night Skinny, io il palco del Forum l’ho pure già provato, come ospite: guarda che l’impatto è devastante. Non può non colpirti tantissimo. Ma se lo fai, il problema è che forse fare una cosa di rap puro non basta. Inutile spiegarti quanto lo ami, il rap, ma la potenza di diecimila persone che cantano all’unisono arriva più facilmente con la melodia.Insomma, vuoi dirmi che potresti seguire la traiettoria di Madame, passando piano piano dal rap ad un urban pop sofisticato e cantabile?No, no – non ho la sua voce! Mi piacerebbe tanto averla, ma non ce l’ho. Non ho la sua qualità vocale. Quindi sicuramente il mio campo resterà sempre il rap. Magari però tenterò di arrivare a degli ibridi, dove c’è spazio anche per la melodia. Quello sì. Però ecco, sinceramente la parola “urban” un po’ la odio…Eh, ma capisci che tocca usarla, in questi ibridi fra pop ed hip hop. Ha un suo senso.Sì, ma ormai è una etichetta che viene usata a casaccio.Tra l’altro è una etichetta di derivazione americana, mentre tu e il tuo socio di sempre Disse, che ancora oggi è il tuo primo collaboratore in quanto alla parte musicale, avete per certi un approccio molto più british, vedi i richiami alla drum’n’bass ed agli anni ’90…Però sai qual è la musica che ascolto di più adesso?Qual è?Quella che arriva da America Latina e Spagna.Ah. Attenta perché è un attimo cadere nell’inferno del reggaeton…Guarda che lo amo, il reggaton! Penso sia stupendo! Ho una playlist tutta reggaton, nel mio Spotify.Oddio. Non è che ti metti pure a farlo?Mai. Non sarei in grado. È una questione di rispetto.Ah.Però ecco, lo ascolto tanto, e – spacca!The post Il gusto di essere Ele A (nel rap) appeared first on Soundwall.