di Domenico TambascoUna agente di polizia locale segnala irregolarità nell’uso di fondi pubblici, favoritismi nelle indennità e anomalie nella gestione delle risorse. In cambio, subisce tre anni di isolamento, umiliazioni, dequalificazione, minacce e un clima di ostilità costante da parte dei colleghi e del Comandante.È questa la vicenda all’origine della sentenza n. 951/2025 della sezione lavoro del Tribunale di Bergamo, una pronuncia che rappresenta una svolta storica nella tutela dei segnalanti, ma che al tempo stesso evidenzia come il nostro sistema risarcitorio sia ancora ben distante dagli standard europei.L’evoluzione normativa – dalla L. 190/2012 sino al più recente d.lgs. 24/2023 – ha progressivamente ampliato la tutela a favore dei whistleblower, senza tuttavia condurre, sino ad oggi, al riconoscimento di un effettivo risarcimento per le ritorsioni subite. La decisione in commento segna un punto di svolta: qualifica le condotte come ritorsive, ne dichiara la nullità e afferma la responsabilità risarcitoria dell’amministrazione ex art. 2087 c.c. per non aver prevenuto un contesto lavorativo stressogeno.Con ciò, la giurisprudenza abbandona l’impostazione che subordinava la tutela alla prova dell’intento persecutorio, superando un approccio rigidamente ancorato alle categorie del mobbing e dello straining e responsabile, negli anni, del rigetto di numerosi ricorsi.L’inversione dell’onere della prova: un meccanismo che finalmente funzionaLa decisione applica correttamente il meccanismo dell’inversione dell’onere della prova previsto dall’art. 54-bis d.lgs. 165/2001 -vigente all’epoca dei fatti – affermando che, quando intervengano atti pregiudizievoli in stretta contiguità temporale con la segnalazione, è l’amministrazione a dover dimostrare che siano determinati da ragioni estranee alla denuncia dell’illecito.Per anni questo principio è rimasto sostanzialmente inapplicato, complice una prassi giurisprudenziale che finiva per depotenziare la tutela legislativa: si negava spazio a qualsiasi meccanismo presuntivo, gravando il segnalante dell’onere di dimostrare puntualmente il nesso causale tra la denuncia e la successiva misura pregiudizievole (cfr. Cass., 6 dicembre 2024, n. 31343; Trib. Milano, 13 dicembre 2023, n. 3854; App. Milano, 3 marzo 2023, n. 252; App. Palermo, 30 agosto 2022, n. 807).La decisione del Tribunale di Bergamo si colloca, invece, nel solco di un’inversione di tendenza inaugurata da una precedente e altrettanto significativa pronuncia del Tribunale di Milano, che aveva già valorizzato l’inversione dell’onere della prova dichiarando la nullità del licenziamento irrogato a seguito di una segnalazione (Trib. Milano, 6 giugno 2025, n. 1680).Il danno morale del whistleblower vittima di ritorsioni si presume (e non serve un danno biologico)Un ulteriore profilo di particolare rilievo è rappresentato dalla qualificazione del danno morale in termini presuntivi. La giudice riconosce che tre anni di umiliazioni, isolamento e ostilità non possono che tradursi in una sofferenza intensa e in una profonda lesione della dignità personale. Ed è proprio in questa prospettiva che la motivazione valorizza la possibilità di accertare tale pregiudizio attraverso presunzioni semplici, richiamando le cosiddette “massime di comune esperienza”, processualmente rilevanti ai fini probatori (art. 115 c.p.c.).Non quindi è necessario che la vittima produca una diagnosi medica o fornisca una dimostrazione “clinica” della propria sofferenza. A fondare l’esistenza del pregiudizio è, infatti, la natura stessa del contesto: un ambiente ostile e degradante, protratto nel tempo, è di per sé idoneo a generare un turbamento profondo, che emerge in modo obiettivo dall’insieme delle circostanze accertate.Il punto critico resta: 25.000 euro non sono un risarcimento adeguatoLa sentenza segna senza dubbio un passaggio importante, ma l’entità del risarcimento riconosciuto non appare proporzionata né alla gravità delle condotte accertate, né – soprattutto – alla funzione dissuasiva e non puramente simbolica che il diritto europeo, attraverso l’art. 23 della Dir. Ue 2019/1937, assegna in modo esplicito a questo tipo di tutela.Se il riconoscimento delle ritorsioni e del danno morale in via presuntiva rappresenta quindi un passo avanti, il “costo” complessivo imposto ai responsabili delle misure illegittime (25mila euro) rischia tuttavia di essere troppo modesto per esercitare un reale effetto di deterrenza. Ne deriva una forma di evidente moderazione risarcitoria che non rende giustizia a chi, per difendere la legalità, ha subito conseguenze personali gravissime.Una simile impostazione si pone in contrasto tanto con la Direttiva Ue 2019/1937 quanto con la Convenzione Oil n. 190/2019, che qualifica le ritorsioni come una forma di violenza sul lavoro da contrastare secondo il principio della “tolleranza zero”.La sentenza in commento, dunque, è soltanto un punto di partenza, non certo di arrivo. Perché non si può chiedere alle lavoratrici e ai lavoratori il coraggio di segnalare illeciti se, allo stesso tempo, non si garantiscono risposte davvero deterrenti rispetto alle condotte lesive della dignità: solo così il diritto di whistleblowing, essenziale presidio di legalità democratica, potrà essere effettivamente attuato a beneficio dell’intera collettività.L'articolo Whistleblowing, sentenza storica per una vittima di ritorsioni. Ma il risarcimento è lontano dagli standard Ue proviene da Il Fatto Quotidiano.