I volantini elettorali forse sono retaggio di un mondo antico in completo abbandono ma, chissà come, hanno la capacità di resistere alle bizze del tempo. Soprattutto, almeno in certi casi – e le elezioni regionali in Veneto sono uno di questi –, riescono a creare una porta temporale che riconduce a un passato che sembrava essere scomparso. Non lo era, stava solo dormicchiando. I quindici anni di Luca Zaia alla guida della regione hanno solo sopito quella parte del Veneto che insegue il suo sogno autarchico, antisistema, o così almeno è classificato da chi il “sistema”, qualunque esso sia, lo rappresenta. Ma non l’hanno cancellata. Per quindici anni è andato bene ai più, perché capace di parlare a tanti, di accentrare su di sé consensi su larga scala. Luca Zaia ascolta tutti. Ed è riuscito a rappresentare una veneticità diffusa capace di non scontentare i micromondi presenti nella regione grazie al piglio dell’“omo che fa e no se nasconde”. I risultati delle urne sono stati spesso plebiscitari: alle ultime elezioni, nel 2020, ha raccolto il 76,79 per cento dei voti, con la sua lista personale che ottenne il 44,57 per cento mentre quella della Lega si era fermata al 16,92. Dopo tre mandati Luca Zaia non si è potuto ricandidare per il quarto. E quel mondo unitario ha dovuto fare i conti con l’assenza dell’accentratore di consensi, con la figura del grande tranquillizzatore. Alberto Stefani non è un tranquillizzatore, ha l'atteggiamento del leghista, non dello Zaiano. Vincerà queste elezioni, ma la sua candidatura ha fatto riemergere ciò che si credeva perduto. Lo testimoniano i volantini elettorali. Lo testimoniano le trentamila firme raccolte in poco tempo – senza nemmeno una campagna mediatica da studio di comunicazione – da Riccardo Szumski e dal suo “Resistere Veneto”. È un candidato alla presidenza della regione suo malgrado, Riccardo Szumski. O almeno così dice. Una campagna elettorale nata come conseguenza di un’altra campagna, quella per la libertà vaccinale del 2021, che non è proprio la stessa cosa dei No Vax, ma ci va vicino, è tangente. Riccardo Szumski è stato sindaco di Santa Lucia di Piave, paesino di novemila anime vicino a Conegliano, provincia di Treviso, dal 1994 al 2002 e poi dal 2012 al 2022. Un passato leghista, ma à la veneta, quasi mai in linea con la parte lombarda: lighista (nel senso di Liga Veneta) più che leghista. Vicino ai movimenti territoriali del trevigiano, l'indipendentismo duro e puro, quello accantonato dai vari segretari federali. Eretico come un vero ortodosso della Lega d'antan sa essere di questi tempi. Si presenta come rappresentante di "chi non si sente più rappresentato", sostiene: "Cittadini liberi, forze indipendenti, delusi da una Regione sempre più distante. Difensore intransigente dell’autonomia locale, ha promosso atti concreti contro l’eccesso burocratico e vinto importanti battaglie legali in difesa del suo Comune". È stato soprattutto un medico di base. Nei mesi della pandemia si disse contrario all’obbligo vaccinale, si convinse che il vaccino non era necessario, mentre erano necessarie le terapie per curare le forme più aggressive della malattia. Lo radiarono dall’albo dei medici nel 2021 per il rilascio di “certificati di esenzione dalla vaccinazione a pazienti” e per aver effettuato “cure domiciliari, non previste in alcun protocollo anti Covid”. Furono in molti a supportarlo allora. Furono molti a testimoniare l’impegno del medico verso i pazienti. A chiederne il reintegro. Era, ed è, ben voluto Riccardo Szumski nelle sue zone, quelle a nord di Treviso, nel Coneglianese. “Nessuno poteva immaginare che in quei momenti stava iniziando un nuovo percorso politico. Nemmeno lui. Non era suo interesse entrare in politica, l’abbiamo convinto noi, ma ci sono voluti anni”, racconta chi lo conosce da una vita e gli è stato vicino in quei giorni. Attorno a Riccardo Szumski si è raccolta quella parte di Veneto che si era assopita nei quindici anni zaiani, “perché in fondo Luca Zaia era il male minore”, “è pure bravo”, dicevano. Quella parte di Veneto che sognava l’indipendenza, che si sentiva vessata da Roma e dal fisco, che da un lato voleva le fabbrichette, perché serviva lavorare, ma dall’altro già lottava, ben prima di Greta Thunberg, per la salvaguardia dell’ambiente, per l’efficienza energetica, per la cura di un territorio che vedeva cambiare in peggio, anche se non sempre faceva molto per porre rimedio a tutto questo. Una parte di Veneto senza casa politica, innamoratasi di sigle bislacche da pochi voti e tante idee, capaci però di movimentare, tra gli anni Novanta e i primi Duemila, il dibattito locale e pure nazionale. Gente con un armamentario di convinzioni che univano il socialismo radicale, il libertarismo, il liberismo, l’indipendentismo, il federalismo europeo, il cristianesimo degli ultimi e il folklore locale in un miscuglio tanto affascinante quanto infruttuoso. Una parte di Veneto che si è ridestata dal sonno della pax zaiana e ha visto in Szumski, quel qualcosa in cui aveva creduto, per cui si era data da fare. E con lui sono ritornati i vecchi slogan, le vecchie idee: la convinzione che il Veneto sia una Ferrari guidata come una 500, la necessità di difendere la Lingua veneta dalla scomparsa (chiamato Lingua e non dialetto, anche se per la quasi totalità dei linguisti quello veneto è un dialetto), la convinzione che si possa ancora essere autonomi in un tripudio di porpora e oro che ricorda, anche senza citarla più direttamente, la Repubblica Serenissima. Un’autonomia che ormai è soprattutto fiscale, perché la questione identitaria è stata messa un po’ da parte, nonostante non sia del tutto sparita. Una parte di Veneto certamente minoritaria, forse poco chiassosa, ma capace di unirsi a tutte quelle sacche di resistenza al mainstream – purché non vengano dai centri sociali o da comunistate varie ed eventuali. Una parte di Veneto che spesso è rimasta confinata alla sinistra del Piave, ma che ha raggiunto l’altra sponda puntando forte sul tema della sanità. Tema sentito in regione, e non solo per gli strascichi no vax. “È ormai evidente la deriva di una gestione impostata al risparmio con meno operatori e turni sempre più insostenibili”, ha spiegato Szumski al Corriere. “Medici e infermieri fuggono nel privato soprattutto per difendere la loro qualità di vita. Nella sanità pubblica mancano gli approvvigionamenti, le liste d’attesa sono un problema enorme. E poi, diciamolo chiaramente, io non ho nulla contro il privato ma ormai è chiaro che se hai i soldi puoi curarti in tempo utile, se non li hai rinunci alle cure”. La pax zaiana è finita e di spazio politico ce n'è. Tanto che gli ultimi sondaggi danno “Resistere Veneto” sopra il 5 per cento.