di Gianvito Pipitone – C’è un punto fermo da cui partire, ed è il più scomodo: nessuno ha mai davvero voluto fermare Benjamin Netanyahu. Né Biden, né Trump. Né l’America democratica, né quella repubblicana. Il vile attacco di Hamas al cuore di Israele nell’ottobre del 2023, vergognoso e criminale, ha offerto il pretesto perfetto per un’offensiva che ha travalicato ogni limite di legittimità. Eppure, la reazione israeliana non ha trovato ostacoli. Solo silenzi, complicità, e qualche timido appello al “contenimento”. Un contenimento che, nei fatti, non ha mai avuto né voce né volontà.Gli Stati Uniti non vedono Israele come un semplice alleato. È molto di più: una sentinella armata, un figlio ribelle, spesso degenere ma utile, piazzato strategicamente sul bordo del mondo arabo-islamico. Un mondo che Washington teme, disprezza, e non comprende a fondo. Israele è la pedina geopolitica perfetta, e come tale viene protetta, anche quando brucia Gaza, anche quando i crimini di guerra diventano prassi. Quando i bambini innocenti muoiono seppelliti dal buio della ragione. Nessuno vuole davvero vivere in quella terra, se non chi ci è nato. Ma tutti vogliono controllarla. E il controllo, si sa, non ha bisogno di giustificazioni: solo di alleanze.E l’Europa? L’Europa si è lavata le mani timidamente. Avrebbe dovuto essere il pungolo, il contrappeso morale, il bastone diplomatico. Invece ha scelto la prudenza. O peggio, il compiacimento. Germania e Italia, in particolare, si sono rifugiate dietro il paravento della “memoria storica”, quella rinnovata amicizia post-Olocausto che ha trasformato la vergogna in paralisi. Ma c’è anche un altro motivo, meno nobile e più concreto: il business delle armi. Dopo gli Stati Uniti, sono proprio Berlino e Roma i principali fornitori di armamenti a Israele. E quando il profitto entra in gioco, la diplomazia si ritira. Si ritira in silenzio, lasciando dietro di sé solo il rumore delle bombe.Quello che sta accadendo da quasi tre anni ormai nella Striscia di Gaza non ha più nulla a che vedere con il “diritto a difendersi”. È diventato un esodo, una pulizia etnica mascherata da operazione militare. Gaza brucia, e con essa brucia anche l’ultima scusa rimasta: quella di Israele come “unica democrazia” in un’area di tagliagole e regimi. Ma quale democrazia può sopravvivere con un premier che governa senza maggioranza, ignorando gli appelli internazionali, e calpestando ogni principio di rappresentanza? La democrazia, quando diventa strumento di oppressione, smette di essere tale. Diventa una patetica parodia.Netanyahu è ancora lì. E non per volontà del popolo, ma per la debolezza delle istituzioni. L’ONU lancia appelli al cessate il fuoco, ma sono grida nel vuoto. L’Europa balbetta. Gli Stati Uniti recitano il copione: il bastone (ma quale?) e soprattutto l’agognata carota. E intanto, da dietro le quinte, emergono retroscena grotteschi: Trump che si infuria privatamente contro Netanyahu, salvo poi celebrarlo pubblicamente con cerimonie e dichiarazioni di facciata. È il sintomo di una politica schizofrenica, bipolare, che ha perso ogni dignità di fronte all’umanità. Una politica che ha smesso di essere guida, per diventare facciata.E proprio ieri, a conferma di questa deriva, sono arrivate le parole del ministro delle finanze israeliano, Bezalel Smotrich: “Gaza è un ottimo investimento immobiliare”. Una dichiarazione cinica, inaccettabile, che lascia cadere ogni velo e rivela l’oscenità della speculazione travestita da ricostruzione. Non più solo guerra, ma business. Non più solo occupazione, ma profitto.Da tempo ormai, non si tratta più di scegliere da che parte stare. Si tratta di riconoscere che il teatro è marcio, che gli attori recitano a soggetto, e che il pubblico, cioè noi, è stato ridotto al ruolo di spettatore impotente. Gaza non è solo una tragedia mediorientale. È lo specchio di un mondo che ha smesso di distinguere tra giustizia e convenienza. E quando la convenienza prende il sopravvento, il futuro si scrive con il sangue.