“Israele porta avanti una guerra contro la memoria palestinese: Per questo distruggono monumenti storici che collegano i palestinesi alla loro terra, alla loro memoria”. Chi pronuncia queste parole ha provato questa esperienza sulla sua pelle. E’ 17 gennaio 2025, il giorno prima dell’inizio dell’ultima trega. Atef Abu Saif, ministro della Cultura dell’Autorità Nazionale Palestinese dal 2019 al 2024, scrittore, torna a casa, ma la casa non c’è più, insieme alla sua biblioteca: “Quella era la libreria della mia vita: avevo raccolto decine di migliaia di volumi”. Ora ci sono solo fogli volanti, mischiati alle macerie grigie dei palazzi. Romanzi dei migliori scrittori di Gaza raccolti lungo una vita; una edizione del Al-Qamus al-Muhit, uno dei dizionari di lingua araba più fini mai scritti, sono dispersi: nascosti dal cemento e dalla morte.Abu Saif guarda una pianta di melograno, mentre lo incontriamo. Non siamo a Gaza, ma in un paesino del varesotto. E’ a casa di Giacomo Longhi Alberti, curatore del suo ultimo libro pubblicato in italiano, Vita Appesa, Polidoro editore, uscito nella collana Disorientati. “Avrei voluto costruire una biblioteca pubblica a Jabalya, il campo profughi dove sono nato, e destinarvi la mia collezione di volumi”. Ma ora è tutto bruciato, perduto. Nell’elenco dei volumi di Abu Saif andati perduti per sempre c’erano i racconti scritti in carcere, fra il 1991-1992. “Avevo 18 anni e le mie storie erano molto lette dagli altri detenuti: avrei voluto pubblicarle da anziano”. Poi c’erano le lettere scambiate con il fratello, ucciso dagli israeliani durante la seconda intifada. Una infinità di libri di autori di Gaza, quasi 700 volumi, fra poesia e romanzi, autografati. Abu Saif, quando era ministro, si spese molto nel promuovere le arti letterarie.Sotto i detriti dell’edificio di cinque piani, contenente la biblioteca di oltre 40mila volumi, c’erano anche i tesori più preziosi. “Avevo dei libri pubblicati prima della Nakba, ereditati dalla mia famiglia: incredibilmente, quando furono costretti a lasciare Jaffa nel 1948, portarono con sé anche i loro testi preferiti” dice incredulo, forse ripensando al detto: l’uomo non vive di solo pane. Di Jaffa, per mantenere vivo il ricordo, nella biblioteca c’erano dei testi pubblicati fra gli anni ’20 e ’30: “Autentici tesori nazionali”.Ma nulla è per sempre. Come l’orizzonte davanti a noi che muta. Non è Gaza, non è nessuna città della Palestina. Il paesaggio che si staglia è quello della tranquilla campagna del Nord Italia. I luoghi sono ormai transitori. “I palestinese – dice lo scrittore – da sempre vivono in una situazione temporanea, non permanente”. La maggior parte della popolazione della Striscia, – circa il 70% – è composta da rifugiati, provenienti da Jaffa, da Ashkelon e dalla fascia costiera. La gente ha sempre vissuto un’esistenza provvisoria, senza mai aver conosciuto la pace e la stabilità. In un certo senso, spiega, “le persone vivono nel passato: raccontano storie della loro giovinezza, dei loro giorni migliori in Palestina prima della Nakba”. Così la gente confrontano la loro vita attuale con quella di un tempo, percepiscono tutta la differenza. C’è qualcosa di paradossale? “Sì: un tempo vivevamo nelle terre abitate dagli israeliani, nei loro campi, nelle loro case. Oggi, nei campi profughi, vivendo in condizioni precarie, in alloggi poverissimi”. Io, precisa, “sono cresciuto con la consapevolezza dell’importanza della memoria”.Abu Saif vive una vita appesa, per usare il titolo del suo romanzo. Vive una esistenza mualaqa’a – appesa, agganciata- fra il passato e il presente. Ma oggi Gaza che cos’è? “Gaza non c’è più: tutto ciò che conoscevamo – strade, caffè, ristoranti, monumenti, piazze – sopravvive solo nella letteratura: nei miei romanzi, come Vita Appesa, o in quelli di altri autori. Alle nuove generazioni non resterà altro che conoscere il passato tramite la scrittura: così ritroveranno l’immagine della città di un tempo”, dice con nostalgia.Abu Saif vuole preservare i ricordi, immagini. Chiudiamo insieme gli occhi. Osservando i cumuli di macerie che compongono la geografia della catastrofe della Striscia, scopriremmo tanti poster appesi ai muri: ritraggono i volti dei martiri, shuhada’. Sono uomini, donne bambini. “Il manifesto rappresenta la memoria collettiva: ricorda chi non c’è più. Anch’io ho familiari commemorati in manifesti – mio fratello, ucciso durante la Seconda Intifada, o mio nonno, ucciso nel 1967”. La guerra, ammette realista lo scrittore, “trasforma gli esseri umani in numeri, figure e manifesti”.A Gaza, come in altri luoghi, c’è bisogno di manifesti per non diventare subito i numeri di un conflitto atroce. “Ho sempre lottato contro questa riduzione, anche se capisco che la gente abbia bisogno di eroi, di poster, per trovare un senso a ciò che subisce. Perché: dire che qualcuno è un eroe significa che non è morto invano, che il suo sacrificio serve alla sopravvivenza degli altri”. Ma cosa succede quando si finiscono i manifesti?Il paradosso sta nel suo ultimo romanzo. Il protagonista, proprietario di una tipografia, viene ucciso da un cecchino israeliano mentre apre il suo negozio: è lui che, per quarant’anni, ha stampato i manifesti funebri di tutte le persone uccise; ora devono stampare un manifesto per lui. Ma non tutti vogliono essere ricordati, cercando eroi. Così, il figlio del tipografo avrebbe voluto impedirlo, ma non è riuscito a fermare quella che a Gaza, o nel resto della Palestina, non è più una scelta individuale. “La morte è trasformata in memoria collettiva, diventa parte integrante della storia nazionale”.Lasciamo Abu Saif in un paesino anonimo. E’ di passaggio. Ma la sua vita rimane appesa a un ricordo.L'articolo Gaza, l’ex ministro della Cultura: “Tel Aviv distrugge monumenti che collegano i palestinesi alla loro terra” proviene da Il Fatto Quotidiano.