Gaza. L’atto d’accusa della Commissione Onu, ‘è genocidio’

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di Maurizio Delli Santi * – Non è un documento come gli altri. L’Independent International Commission of Inquiry sul Territorio palestinese occupato, presieduta da Navi Pillay (giurista sudafricana di lungo corso, già Alto commissario Onu per i diritti umani e giudice al Tribunale penale per il Ruanda) ha diffuso un dossier che difficilmente potrà essere archiviato con leggerezza. Nelle sue 75 pagine la Commissione elenca fatti, dichiarazioni e circostanze che, se confermati in un’aula di giustizia, basterebbero a configurare il crimine di genocidio per le operazioni militari condotte a Gaza negli ultimi mesi.Il linguaggio non è politico né militante, ma strettamente giuridico. Si parla di uccisioni sistematiche di civili, di inflizione di danni fisici e psicologici gravi e durevoli, di condizioni di vita imposte con lo scopo di rendere impossibile la sopravvivenza del gruppo, fino alla distruzione mirata di strutture sanitarie e servizi vitali, comprese le cliniche di maternità e i presidi per la salute riproduttiva. È un elenco che richiama in maniera quasi didascalica l’articolo II della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948, richiamato punto per punto.Il dossier non si limita a descrivere atti materiali: aggiunge un tassello essenziale per la qualificazione giuridica, quello dell’intento. La Commissione raccoglie e mette in fila dichiarazioni di leader e comandanti israeliani, che parlano apertamente di “distruzione totale” di Gaza o di “annientamento” dei palestinesi. Per i commissari queste frasi non sono propaganda bellica, ma indicatori di intentio necandi, cioè la volontà di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico o nazionale. È proprio questa combinazione, cioè atti concreti più dichiarazioni di intenti, che eleva il documento a base probatoria di enorme peso.Un passaggio però va chiarito. Il rapporto non produce effetti giuridici immediati e non diventa automaticamente vincolante. Secondo il mandato stabilito dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (risoluzioni istitutive del 2021 e successive), la Commissione ha solo il compito di indagare e riferire. Il documento viene quindi consegnato allo stesso Consiglio, che lo discuterà, potrà approvarlo con una risoluzione e infine trasmetterlo agli altri organi politici dell’Onu. Da lì si aprono tre possibili percorsi: l’Assemblea generale, che può adottare risoluzioni di condanna o chiedere pareri consultivi alla Corte internazionale di giustizia ai sensi dell’articolo 96 della Carta; il Consiglio di sicurezza, che con una maggioranza qualificata e senza veti dei membri permanenti può adottare decisioni vincolanti, inclusi deferimenti alla Corte penale internazionale; e infine gli stessi tribunali internazionali, che possono utilizzare il dossier come fonte documentale.La sfida giuridica: da Gaza all’Aia.Il rapporto Pillay non è dunque un verdetto, ma un atto di accusa giuridicamente fondato che apre scenari precisi. Il primo riguarda la Corte internazionale di giustizia. Il procedimento avviato dal Sudafrica contro Israele si basa proprio sulla Convenzione sul genocidio. Le misure provvisorie già ordinate dall’Aia, cioè garantire l’ingresso degli aiuti umanitari, evitare atti discriminatori contro i palestinesi, punire incitamenti all’odio, trovano ora un sostegno documentale più robusto. Il materiale raccolto dalla Commissione potrà essere depositato agli atti e rafforzare la posizione accusatoria del Sudafrica e degli altri Stati che si sono uniti al ricorso.Il secondo fronte è quello della Corte penale internazionale. Il procuratore Karim Khan ha aperto indagini sia sui crimini di Hamas (il 7 ottobre e le violenze contro civili israeliani), sia su funzionari e militari israeliani. Il dossier Onu diventa un pacchetto probatorio a disposizione dei giudici dell’Aja: pattern operativi, targeting dei civili, distruzione sistematica di infrastrutture, dichiarazioni pubbliche dei vertici politici e militari. Non basta a emettere sentenze, ma alza la pressione verso incriminazioni formali e manda un segnale politico forte: le prove raccolte non sono frutto di ONG o media, ma di un organo d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite.Il terzo fronte è forse il più delicato: la responsabilità degli Stati terzi. La Convenzione sul genocidio non concede neutralità. Gli Stati firmatari hanno l’obbligo di prevenire e di non essere complici. La Commissione è esplicita: continuare a fornire armi, intelligence o copertura politica a Israele, di fronte a un rischio concreto di genocidio, equivale a violare il diritto internazionale. Non si tratta solo di un ammonimento morale, ma di un obbligo giuridico che potrebbe tradursi in futuro in responsabilità legali davanti a corti nazionali o internazionali. Questo elemento rischia di mettere in seria difficoltà i Paesi occidentali che hanno garantito sostegno militare a Tel Aviv.Non va trascurato neppure l’effetto indiretto sul diritto internazionale stesso. Come ha sottolineato il giurista William Schabas, il rapporto rappresenta “un passo inevitabile verso la qualificazione giuridica del genocidio”. Philippe Sands, più prudente, riconosce che “pone interrogativi seri che i giudici non potranno eludere”. In entrambi i casi la conseguenza è che le corti non potranno ignorare il materiale raccolto: dovranno confrontarsi con esso, valutare e motivare le proprie decisioni.Gli effetti immediati.Il dossier Pillay non è destinato a impolverarsi in un archivio. La sua pubblicazione ha già acceso il dibattito internazionale, moltiplicando prese di posizione di giuristi, organizzazioni e governi. Sul piano politico gli Stati occidentali si trovano ora davanti a un dilemma: continuare a sostenere Israele nonostante le conclusioni Onu, oppure rivedere le proprie posizioni alla luce di un’accusa che rischia di compromettere la credibilità internazionale di chi resta in silenzio. Sul piano giuridico, i tribunali internazionali dispongono di un documento che rafforza e consolida i procedimenti già avviati. Sul piano umanitario, per la popolazione di Gaza il rapporto equivale a un appello urgente: fermare i bombardamenti, garantire accesso ad acqua, cibo, cure mediche e assistenza umanitaria immediata.Gli effetti si vedono già. Alcuni Stati hanno sospeso forniture militari a Israele, citando proprio il rischio di complicità in violazioni gravi del diritto internazionale. Altri, pur mantenendo il sostegno, hanno iniziato a chiedere pubblicamente cessate-il-fuoco temporanei e corridoi umanitari, segno che la pressione dell’opinione pubblica e la forza del dossier cominciano a incidere sulle scelte diplomatiche.Un elemento nuovo arriva anche dal mondo arabo. Paesi come Egitto, Qatar e Giordania hanno intensificato gli sforzi diplomatici, non solo per la consegna di aiuti umanitari, ma anche discutendo apertamente la possibilità di una missione di stabilizzazione congiunta, araba o arabo-internazionale, da schierare a Gaza al termine delle ostilità. L’idea, ancora in fase embrionale, prevede una presenza multilaterale sotto egida Onu o Lega araba, con funzioni di sicurezza e garanzia del rispetto del diritto umanitario. Una proposta che testimonia come il dossier Pillay, pur privo di forza vincolante immediata, abbia già spostato gli equilibri: la questione non è più se la comunità internazionale debba intervenire, ma come e con quali strumenti.La verità è che il tempo stringe. Ogni giorno che passa aumenta il rischio che la parola “genocidio” smetta di essere una categoria giuridica astratta e diventi la tragica descrizione di un fatto compiuto. In quel caso gli Stati che oggi tacciono non potranno sostenere di non aver saputo. La Commissione ha fatto il suo lavoro: ha raccolto prove, dichiarazioni, dati. Ora tocca alla politica internazionale decidere se trasformare quelle carte in azione.* Membro dell’International Law Association.