di Serena Cavalletti*I divieti in campo educativo hanno risultati garantiti, formano pedissequi obbedienti o astuti trasgressori, se riferiti agli adolescenti in genere la prevalenza è di questa seconda casistica. Di sicuro non contribuiscono alla formazione di persone responsabili, consapevoli di sé e capaci di autoregolarsi.Eppure l’educazione è un patto, una palestra di democrazia nella quale il codice di regole dovrebbe essere condiviso, generarsi in seno alla comunità, a seguito di una riflessione collettiva. È attorno alla decisione finale nata da questo iter che la regola non viene subita, ma formulata e ci si assume l’impegno conseguente di rispettarla. In tutto ciò l’insegnante non è un maresciallo, ma un centro regolatore, un soggetto parte della comunità stessa.Quale sia tuttavia la fiducia che il Legislatore tributa alla comunità scolastica è ben noto, soprattutto la capacità di contare che assegna a studentesse e studenti mai ascoltati, ma addestrati da divieti e punizioni, più all’obbedienza che alla cittadinanza, a meno che non si pensi che la cittadinanza sia fatta di questo: obbedienti che non saranno mai decisori o parte attiva del proprio stesso cammino.Già prima della pandemia i filosofi si confrontavano su cosa fosse effettivamente lo smartphone: un utensile qualunque dunque parte dell’ambiente esterno, oppure un’estensione del mondo interiore?Credo sia ormai evidente che ci troviamo di fronte a uno snodo singolarissimo: un oggetto senz’altro, materialmente parlando, in cui tuttavia ambiente esterno e mondo interiore si incontrano e diventano parte della vita emotiva, interpersonale, persino evolutiva.Tutto ciò, che sa di straordinario, ovviamente però ha un prezzo, un costo che può essere anche abnorme se non si è in grado di dare a questo nuovo sconfinato mondo un posto e un uso preciso e non è operazione da poco, vuol dire orientarsi nella complessità.È stato lo smartphone a cambiare il modo di concepire i fenomeni sociali, tutto ciò che in passato poteva essere comunicato dalla visione univoca dei media filtrati, ora mostra la sua texture: tra le trame del sistema ciò che era invisibile può marcare una presenza e persino il falso può apparire così somigliante al vero da creare reali conseguenze.Come fa tutto questo a essere escluso dalla scuola? Quel sistema sociale in sé compiuto, ma dai confini così deboli da filtrare tutto, un’osmosi straordinaria e produttiva, tanto da essere presente e officina delle nuove realtà. Questa era la base teorica dell’autonomia scolastica: la continuità orizzontale che permettesse a ogni istituto di adeguare l’offerta formativa al territorio per colmare le disuguaglianze, una struttura flessibile in grado di rispondere alle necessità emergenti.In tutto questo poetico e politico panorama però si innesta la figura esterna, ma determinante del Legislatore. Egli non sa, non conosce, non è parte, si muove in base a statistiche di dubbia validità e regolamenta l’osmosi, si fa arbitro di cosa entra e cosa esce, quando non lo può fare direttamente delega alle famiglie con i vari consensi informati.E la regola imposta non viene dalla consulenza di chi vive nell’ambiente scuola e ne fa il proprio mondo, viene dall’opinionismo diffuso. Chi scrive ha ascoltato dalla fonte le motivazioni di parecchie scelte, ma basta leggere l’inizio della premessa della prima stesura delle nuove Indicazioni Nazionali per il Primo Ciclo per rendersene conto, stando seduti però, perché c’è di che trasalire.Dunque per il Legislatore al momento il problema non è interpretare la complessità, è abolirla, non è fornire ai docenti e alle docenti strumenti per lavorare al meglio, ma ulteriori ardue vigilanze.Se esiste un disturbo di adattamento in ambiente scolastico, i cosiddetti problemi di disciplina, non si profilano soluzioni proattive come istituzionalizzare i centri d’ascolto, assumere gli educatori e le educatrici, diminuire il numero di alunni e alunne per classe, ma provvedimenti disciplinari e repressione.Sono state la Prima Commissione Europea e poi l’OCSE a certificare la carenza di investimenti: l’Italia spende in istruzione molto meno degli altri Paesi europei, sia in generale che in rapporto alla spesa pubblica totale. È un dato.Eppure i colleghi lo dicono, uno di quelli che più ci crede e insegna matematica in un istituto professionale sostiene da anni: “Datemi classi meno numerose e sarà un altro mondo”. Ma come lui sempre dice: “Se il dito indica la luna, il Ministro ordina: Tagliamo il dito”.* insegnante, componente del Consiglio Superiore della Pubblica IstruzioneL'articolo Smartphone vietati a scuola, alla politica non interessa interpretare la complessità ma abolirla proviene da Il Fatto Quotidiano.