Non basta lo slogan “battiamo la destra” per costruire un’alleanza. La versione di Panarari

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Secondo Elly Schlein, Pd e Movimento 5 Stelle sono alleati. Giuseppe Conte smentisce. O, meglio, ridimensiona il tutto anteponendo – se non altro dal punto di vista nominale – i programmi. Dunque la campagna per le regionali si è trasformata in un laboratorio politico nazionale, dove il confronto tra i partiti si gioca non solo sulla leadership e sulle alleanze, ma anche sul terreno del linguaggio. Dopo l’uccisione di Charlie Kirk negli Usa, il dibattito (anche a queste latitudini) si è rapidamente acceso intorno ai toni della politica, tra accuse di odio e strategie identitarie. La polarizzazione trova nel web e nei social un amplificatore naturale, mentre le coalizioni si reggono su collanti sempre più deboli: a destra l’anticomunismo senza comunismo, a sinistra lo slogan “battiamo le destre”. Ma basterà? Ne abbiamo parlato su Formiche.net con Massimiliano Panarari, sociologo e politologo di UniMoRe, che legge le dinamiche del “campo largo”, le mosse di Conte e del Pd e i rischi di una competizione spostata tutta sul terreno identitario.Le regionali si annunciano come un passaggio chiave: che tipo di banco di prova saranno per il centrosinistra?Le regionali sono sempre elezioni particolari, legate al territorio, ma questa volta avranno un valore nazionale molto forte. Nonostante le divisioni e la litigiosità, non è affatto detto che il cosiddetto “campo largo” non riesca a ottenere risultati positivi. La coalizione, pur con tutte le sue fratture, resta competitiva a livello locale. C’è però un evidente disallineamento tra le dichiarazioni dei leader e le loro effettive performance.Cosa intende quando parla di “disallineamento” tra dichiarazioni e performance dei leader?C’è una distanza tra ciò che i leader raccontano e il modo in cui poi incidono realmente sul piano politico ed elettorale. Penso in particolare a Giuseppe Conte, che continua a rimarcare le distanze dal Pd. Lo fa utilizzando il nodo dei programmi come pretesto, anteponendo i contenuti ai nomi per rafforzare la coerenza della piattaforma del Movimento. Ma, in realtà, il punto rimane la leadership e la difficoltà a costruire una vera alleanza. Dunque, in prospettiva, il vero nodo da sciogliere resta la premiership.Conte sotterrerà prima o poi l’ascia di guerra considerando che comunque i rapporti di forza raccontano di un Pd che in termini percentuali è destinato a consolidarsi come senior partner della coalizione?Dal punto di vista elettorale il Movimento 5 Stelle non ha grandi margini di recupero. Il Pd invece ha recuperato spazio a sinistra, persino a discapito del M5S. Ma resta il problema della convivenza tra i due. Conte non normalizzerà questa situazione.Il nodo della leadership rimane irrisolto. Quanto incide sulla credibilità della coalizione?Incide moltissimo. La competizione si è spostata tutta a sinistra, il cartello elettorale appare sempre più sbilanciato in quella direzione. Il vero obiettivo dei leader, oggi, è misurare i rapporti di forza interni. Non basta dire “battiamo le destre” per trovare una sintesi: bisogna decidere chi guida.Lo slogan “battiamo le destre” sembra comunque funzionare.Funziona perché nel vuoto ideologico attuale si sostituisce alle ideologie un principio identitario. Dire “battiamo le destre” innesca un senso di appartenenza e mobilitazione. Ma c’è un rischio: il disallineamento tra leader e base, che vuole solo battere il nemico, può generare un linguaggio d’odio.In che senso?Il web e i social funzionano con una logica dicotomica: o con me o contro di me. Trasferita sul piano politico, questa logica produce polarizzazione estrema e delegittimazione dell’avversario. Si arriva a uno scontro totale tra opinioni senza legittimare quelle altrui, e questo alimenta una spirale di radicalizzazione.L’uccisione di Kirk ha riacceso vecchi fantasmi. Che lettura dà di questo clima?È stato il pretesto per agitare vecchi spettri e ricreare un clima da “anni di piombo”. La destra utilizza questi episodi per rafforzare una propaganda che, in fondo, non è molto diversa dall’anticomunismo in assenza di comunismo. È un meccanismo retorico che torna utile in campagna elettorale.Lei parla di una “cucina elettorale” fatta di blocchi sociali, identità e comunicazione. Come si compone oggi?Ci sono tre ingredienti principali. Il primo è l’individuazione di blocchi sociali: a sinistra, ad esempio, il rapporto con la Cgil, che dà al Pd la possibilità di presidiare una fascia sociale precisa, anche se riduce la capacità attrattiva più ampia. Questo alimenta però la competizione interna con Avs e M5S. Il secondo elemento è il principio identitario, cioè il meccanismo del “nemico del mio nemico è mio amico”. Il terzo è la comunicazione, che ha il compito di rafforzare la contrapposizione e mobilitare l’elettorato.Che ruolo giocherà l’astensionismo in queste elezioni?Un ruolo centrale. Ogni parte politica conta sulla speranza che penalizzi l’avversario. È l’incognita più rilevante di questa tornata elettorale.Infine: che impatto avranno queste regionali sugli equilibri in vista delle politiche del 2027?Saranno determinanti. All’inizio Giorgia Meloni temeva molto questa scadenza, e non a caso ha alzato i toni della comunicazione. Ora i giochi si sono riaperti per lo meno in alcune zone. Il numero di regioni conquistate sarà il vero termometro dei rapporti di forza e darà il tono alla lunga campagna che ci accompagnerà fino alle politiche del 2027.