di Giuseppe Lai –La recente nomina da parte del Senato Usadi Stephen Miran, il consigliere economico di Donald Trump, alla FED (Federal Reserve), suggerisce alcune considerazioni sui risultati della sua elezione e sulla linea seguita dal presidente americano per influire sulle decisioni della Banca Centrale americana. In primo luogo la nomina di Miran si è conclusa con 48 voti favorevoli e 47 contrari, un esito che se da un lato desta qualche perplessità, considerata la maggioranza repubblicana, dall’altro conferma l’efficacia dei cosiddetti “check & balances”, il sistema di pesi e contrappesi che tutelano la democraticità delle istituzioni americane ostacolando potenziali derive autocratiche.Nel caso della FED, le garanzie democratiche sono assicurate dal Federal Reserve System, costituito da una serie di organismi atti a garantire che le decisioni assunte dalla Banca Centrale in materia di politica monetaria riflettano gli interessi dell’intero Paese e non quelli di singoli gruppi di potere o partiti politici. Entrando nel merito dell’elezione di Stephen Miran, la sua nomina è avvenuta il 15 settembre, due giorni prima della cruciale riunione della FED in cui si è decisa la riduzione dei tassi di interesse di un quarto di punto, una percentuale attesa dai mercati finanziari, che porterebbe il costo del denaro nel range 4,00-4,25%. Tale decisione della FED è avvenuta in un contesto economico incerto, caratterizzato da un calo dell’occupazione e da una risalita dei prezzi. In dettaglio, per quanto riguarda il mercato del lavoro, le richieste di disoccupazione sono arrivate a 263 mila contro le 235 mila attese, il dato più elevato dall’ottobre 2021, mentre l’inflazione ha registrato nel mese di agosto il valore di 2,9% su base annua, dal 2,7% del mese precedente. Il fattore lavoro ha rappresentato la maggior preoccupazione per l’attuale governatore della FED Jerome Powell, il quale ha dichiarato che il raffreddamento del mercato lavorativo tende a ridurre gli aumenti dei prezzi, una posizione che giustificherebbe il taglio “moderato” di 0,25 punti base. A rendere il quadro più articolato è stata la nomina del consigliere Stephen Miran, scelto da Donald Trump per indirizzare le scelte della FED verso una riduzione di 0,50 punti base dei tassi di interesse, proposta che il consigliere trumpiano ha avanzato nella riunione del 17 settembre ma che è stata disattesa dal board della Banca Centrale. Un abbassamento più marcato del costo del denaro avrebbe infatti assecondato in prima istanza gli obbiettivi elettorali di Donal Trump.Le elezioni di midterm del novembre 2026, ormai alle porte, prevedono il rinnovo completo della Camera e di un terzo del Senato, attualmente a maggioranza repubblicana, e Trump vuole trasmettere all’elettorato segnali convincenti di ripresa dell’economia reale. La leva del costo del denaro, a suo parere, è strategica per rilanciare la crescita economica e ridurre il peso dell’enorme debito pubblico e questo spiega il suo tentativo di aumentare il controllo sulla Banca Centrale. Ridurre i tassi, nella visione del tycoon, aiuterebbe a contenere l’inflazione e le rate dei mutui contratti da famiglie e imprese, alleggerendo l’onere delle rate mensili e quindi, secondo questa logica, migliorando il benessere delle famiglie. In realtà, una conferma che si tratta di priorità essenzialmente elettorali è lo stato attuale dell’economia americana, che non da segni di debolezza tali da giustificare un taglio drastico del costo del denaro. La disoccupazione si è attestata al 4.3% nel mese di agosto, un dato difficile da definire allarmante, mentre l’inflazione è un dato concreto, spinta in parte dai dazi sulle importazioni voluti dallo stesso Trump, che fanno aumentare i prezzi di materie prime e prodotti finiti per le industrie importatrici e i consumatori statunitensi. La narrazione trumpiana sul legame tra bassi tassi di interesse e contenimento dell’inflazione è smentita da tempo dalla dottrina economica, che individua una relazione opposta tra i due fattori: tassi più bassi stimolano maggiori consumi e investimenti e generano sul lungo periodo una pressione al rialzo sui prezzi.Questo trend rialzista spinge gli investitori a richiedere rendimenti più elevati sui titoli per compensare il minor potere d’acquisto e ciò fa aumentare i tassi a lungo termine, il riferimento per il costo dei mutui che invece di ridursi aumenterebbe. Del resto, è sufficiente far memoria di quanto avvenuto nel settembre 2024, quando la Banca Centrale americana ha tagliato i tassi a breve di 50 punti base (contro i 25 attesi) e i mercati, date le aspettative di inflazione, hanno rigettato la decisione spingendo al rialzo il rendimento decennale sui titoli di stato americani dal 3,6 al 4,8 per cento nel giro di poche settimane.Per completare il quadro, nel caso di un deciso trend inflazionistico, la Banca Centrale potrebbe invertire la rotta e alzare i tassi a breve, rendendo più oneroso il debito di nuova emissione e facendo aumentare la spesa per interessi con ulteriore allargamento del deficit pubblico. Premesso dunque che una riduzione dei tassi a breve può innescare nel lungo termine un aumento dell’inflazione, c’è un altro elemento che consolida l’orientamento al “populismo economico” di Donald Trump: la continua pressione politica sulla Federal Reserve. La nomina di Stephen Miran è infatti l’ennesimo tentativo del tycoon di assoggettare al potere politico la Banca Centrale, la cui indipendenza è cruciale per mantenere in equilibrio quei “pesi e contrappesi” istituzionali ricordati all’inizio e per una gestione imparziale della politica monetaria.Una FED politicizzata provocherebbe un disallineamento rispetto alle aspettative dei mercati, compromettendo la fiducia degli investitori globali negli Stati Uniti come destinazione dei loro capitali, sui quali tra l’altro il governo fa affidamento per finanziare il proprio debito. In altri termini gli investitori percepirebbero il messaggio che queste politiche non sono una scelta autonoma della Banca che usa il suo prestigio per convincere i mercati, piuttosto scelte contingenti del governo di turno.