di Giuseppe Gagliano – Nel febbraio 2007, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, Vladimir Putin pronunciò un discorso che allora fu archiviato come uno sfogo, una provocazione, persino un residuo di nostalgia imperiale. Col senno di poi, fu invece un atto di chiarezza. Non una dichiarazione di guerra, ma l’annuncio che la fase dell’ordine unipolare guidato dagli Stati Uniti non era più accettata come naturale, né come legittima, da Mosca.Putin non parlò da vincitore, ma da leader di un Paese che usciva da un decennio di arretramento strategico. La Russia degli anni Novanta aveva accettato l’espansione della NATO, la marginalizzazione politica, la subordinazione economica. A Monaco, per la prima volta, quella stagione venne dichiarata conclusa. Il messaggio fu diretto: un solo centro di potere globale non produce sicurezza, produce instabilità.Il cuore del discorso ruotava attorno a una tesi semplice e scomoda: l’unipolarismo non è sinonimo di ordine. Putin accusò l’Occidente di aver trasformato le istituzioni internazionali in strumenti di parte, di aver aggirato il diritto internazionale quando non serviva più agli interessi del centro dominante, di aver sostituito la sicurezza collettiva con l’uso selettivo della forza.Non era una difesa romantica dell’ONU, ma una constatazione politica: quando le regole valgono solo per alcuni, cessano di essere regole. L’allargamento della NATO verso est, presentato come misura difensiva, veniva letto da Mosca come una pressione strategica continua. Putin non minacciò, ma avvertì: nessun Paese accetterebbe a lungo di essere circondato senza reagire.La reazione occidentale fu rivelatrice. Il discorso venne liquidato come retorica aggressiva, utile al consumo interno russo. Si preferì non prenderlo sul serio. Eppure Monaco 2007 segnava un punto di svolta: la Russia non chiedeva più integrazione alle condizioni altrui, ma riconoscimento come attore autonomo in un sistema multipolare.Quel discorso non annunciava un’imminente escalation militare, ma una divergenza strutturale. Da quel momento, Mosca avrebbe interpretato ogni ulteriore avanzamento occidentale nello spazio post-sovietico come una sfida diretta alla propria sicurezza. Ignorare quel segnale significava rinviare il problema, non risolverlo.A distanza di anni, Monaco appare come il primo atto di una lunga sequenza. Georgia, Ucraina, Siria, fino allo scontro aperto con l’Occidente. Non perché tutto fosse scritto, ma perché il dissenso strategico espresso allora non venne mai affrontato politicamente. Si scelse di considerarlo illegittimo invece che pericoloso.Putin, nel 2007, non chiedeva l’approvazione dell’Occidente, ma la presa d’atto di un limite. Il limite di un sistema che pretendeva di estendersi senza frizioni. Quel limite non fu riconosciuto. E quando i limiti non vengono negoziati, finiscono per essere imposti.Rileggere oggi il discorso di Monaco significa capire che la guerra non nasce mai all’improvviso. Nasce da parole ignorate, da segnali derubricati a propaganda, da conflitti latenti lasciati sedimentare. Monaco 2007 non fu l’origine del confronto tra Russia e Occidente, ma il momento in cui quel confronto divenne esplicito.Non fu un discorso bellicista. Fu un discorso di rottura. E come spesso accade nella storia, le rotture vengono riconosciute solo dopo che le conseguenze sono ormai sotto gli occhi di tutti.