Sudan. L’esercito attacca Nyala

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di Giuseppe Gagliano – Le Forze Armate Sudanesi hanno attaccato Nyala, capitale amministrativa delle Forze di Supporto Rapido nel Darfur meridionale: per tre giorni consecutivi droni e velivoli da combattimento hanno colpito infrastrutture chiave, dall’aeroporto ai centri di addestramento, fino al mercato del carburante, nodo vitale per la sopravvivenza economica e militare della città.Le immagini degli incendi e delle esplosioni raccontano più di molti comunicati. Colpire il carburante significa colpire la capacità delle RSF di muoversi, rifornirsi, controllare il territorio. Ma significa anche esporre i civili a un prezzo altissimo. Le accuse lanciate dall’amministrazione civile delle RSF, che parla di una strategia deliberata di punizione collettiva, si inseriscono in una guerra dell’informazione che accompagna e amplifica quella combattuta sul terreno.Come spesso accade nei conflitti contemporanei, le versioni si contrappongono senza incontrarsi. Le RSF denunciano attacchi indiscriminati contro i civili; l’esercito sudanese, per ora, tace. Da Mosca a Washington, da Ankara ad Abu Dhabi, ciascun attore seleziona e amplifica i fatti che rafforzano la propria posizione. Eppure, al di là delle narrazioni, resta un dato strutturale: Nyala è diventata uno dei centri nevralgici della guerra sudanese perché ospita il governo parallelo proclamato dalle RSF sotto l’etichetta dell’Alleanza Tasis.La figura di Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti, incarna questa ambiguità. Capo militare, leader politico, interlocutore regionale, Dagalo guida un’entità che controlla gran parte del Darfur e si propone come alternativa al potere centrale. La proclamazione di un’amministrazione parallela non è solo una sfida militare, ma un passo verso la possibile frammentazione del Sudan.Il Darfur non è una periferia dimenticata: è una regione chiave per estensione, popolazione e controllo delle rotte interne. La caduta di el-Fasher e l’avanzata delle RSF verso aree come Abu Qumra e Um Buru hanno modificato gli equilibri sul campo, spingendo le SAF a intensificare l’uso della forza aerea. La guerra, sempre più asimmetrica, vede un esercito che cerca di compensare le difficoltà sul terreno con la superiorità nei cieli.Sul piano internazionale, le accuse statunitensi di genocidio contro le RSF aggiungono un ulteriore livello di pressione, ma non risolvono il nodo centrale: chi controlla il territorio controlla il futuro del Sudan. E in questa partita, le infrastrutture contano quanto le armi.È qui che entra in gioco il Mar Rosso. Port Sudan, sotto il controllo delle SAF, è diventato il principale canale commerciale e umanitario del Paese, oltre che la sede operativa del governo militare. L’accordo di gemellaggio con il porto turco di Mersin non è un dettaglio tecnico, ma un segnale politico. Recep Tayyip Erdogan ha colto l’occasione per rafforzare la presenza turca in un’area strategica, coerentemente con la dottrina della “Patria Blu”, che estende la proiezione di Ankara oltre il Mediterraneo.Il sostegno turco alle SAF si colloca in un gioco più ampio di equilibri regionali, dove gli Emirati Arabi Uniti sostengono le RSF e utilizzano aiuti umanitari e infrastrutture come strumenti di influenza. Il Sudan diventa così un teatro di competizione indiretta, in cui la guerra interna si intreccia con le rivalità tra potenze medie.Le avanzate delle SAF nel 2025, dalla regione di Gezira fino al consolidamento dell’Est, indicano una strategia chiara: presentarsi come unico attore in grado di garantire l’unità nazionale. Le iniziative diplomatiche, come la proposta di pace presentata alle Nazioni Unite dal primo ministro Kamil Idris, vanno lette in questa chiave. Non sono solo appelli alla comunità internazionale, ma strumenti per rafforzare la propria legittimità contro un avversario dipinto come fattore di disintegrazione statale.Le RSF, respingendo il piano e definendolo un’illusione, confermano a loro volta di non voler rinunciare al controllo dei territori conquistati. Il Sudan appare così intrappolato in una guerra senza compromessi, dove ogni successo militare riduce lo spazio per una soluzione politica.Alla fine, Nyala non è solo una città colpita dai bombardamenti. È il simbolo di un Paese sospeso tra unità formale e frammentazione reale. Con circa il 40% del territorio sotto il controllo delle RSF e il restante 60% in mano alle SAF, il Sudan vive una divisione de facto che rischia di consolidarsi. In questo scenario, la guerra non decide solo chi governerà, ma se il Sudan resterà uno Stato unico o diventerà un mosaico di poteri armati.Come spesso accade, la comunità internazionale osserva, condanna, media. Ma il destino del Sudan si gioca soprattutto sul terreno, tra Nyala e Port Sudan, tra Darfur e Mar Rosso. Ed è lì che, lontano dai comunicati, si misura il prezzo reale di una guerra che continua a divorare il Paese dall’interno.