di Giuseppe Gagliano – La nomina di un inviato speciale statunitense per la Groenlandia da parte di Donald Trump rappresenta il riemergere di una linea strategica che a Washington riaffiora ciclicamente. La reazione di Copenaghen è stata immediata e dura: la sovranità del Regno di Danimarca non è negoziabile, i confini non si ridiscutono, nemmeno invocando la sicurezza internazionale. Dietro le formule del diritto, però, si intravede uno scontro molto più profondo, che riguarda il controllo dell’Artico, delle rotte future e delle risorse critiche.Il ministro degli Esteri Lars Løkke Rasmussen ha parlato chiaro: rispetto dell’integrità territoriale e convocazione dell’ambasciatore americano. Un gesto formale, ma politicamente pesante, rafforzato dalla presa di posizione congiunta della premier Mette Frederiksen e del capo del governo groenlandese Jens-Frederik Nielsen. Il messaggio è semplice: la Groenlandia non è una pedina, appartiene ai groenlandesi e qualsiasi cooperazione deve partire da questo presupposto.Non è solo una questione di orgoglio nazionale. Per la Danimarca, accettare ambiguità su questo terreno significherebbe legittimare una logica di fatto compiuto che l’Europa, in altri contesti, dice di voler contrastare.Dal lato americano, la retorica è altrettanto esplicita. La Groenlandia viene descritta come “essenziale” per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Non è una forzatura propagandistica: l’isola è un perno strategico nel Nord Atlantico, ospita infrastrutture militari cruciali e si colloca al centro della competizione con Russia e Cina nell’Artico. La novità sta nel metodo. Non più solo cooperazione militare e pressione diplomatica, ma un discorso apertamente politico sull’appartenenza territoriale, con l’ombra, mai del tutto dissipata, dell’uso della forza.La Groenlandia gode di ampia autonomia dal 1979, controlla gli affari interni e guarda con crescente attenzione allo sviluppo delle proprie risorse minerarie. Ma resta legata a Copenaghen per difesa e politica estera. Questa ambiguità istituzionale è il punto debole su cui fanno leva le grandi potenze. L’interesse americano si intreccia con le aspirazioni locali, creando un terreno fertile per operazioni di influenza e pressioni indirette, già emerse negli anni scorsi.Che tutto questo avvenga tra alleati della NATO non è un dettaglio. Il rapporto dei servizi danesi che accusa Washington di usare il proprio peso economico e militare per imporre la sua volontà anche agli amici suona come un campanello d’allarme. La vicenda groenlandese non riguarda solo un’isola di 57.000 abitanti, ma il futuro delle relazioni transatlantiche in un mondo dove la forza torna a contare più delle regole.La Groenlandia è diventata il simbolo di una tensione più ampia: tra sovranità e sicurezza, tra alleanze formali e interessi reali. La risposta danese segna una linea rossa, ma la partita è tutt’altro che chiusa. Nell’Artico che si scioglie, anche le certezze geopolitiche dell’Occidente iniziano a incrinarsi.