di Giuseppe Gagliano – L’energia elettrica è diventata il vero linguaggio della potenza contemporanea. Non fa rumore, non sfila nelle parate militari, ma decide la capacità di un Paese di produrre, innovare, armarsi, crescere. La grande divergenza energetica che si sta delineando tra Stati Uniti, Cina ed Europa nasce da qui: da scelte politiche diverse travestite da visioni tecniche, da strategie di potenza mascherate da dibattito ambientale.Negli Stati Uniti domina un approccio essenzialmente pragmatico. La transizione energetica viene evocata come orizzonte, ma mai come rottura. Washington non rinuncia a nulla che garantisca abbondanza e continuità. Gas, petrolio, nucleare restano pilastri irrinunciabili, mentre rinnovabili e tecnologie verdi vengono integrate senza compromettere la stabilità del sistema. Il principio guida è semplice: l’energia deve essere disponibile, affidabile e a costi compatibili con una grande economia industriale. Senza elettricità a basso prezzo non esistono data center, intelligenza artificiale, rilancio manifatturiero, né riarmo credibile. L’ambiente conta, ma non più della potenza.La Cina segue una traiettoria diversa solo in apparenza. Anche qui la transizione non è ideologica, ma pianificata. Pechino investe in modo massiccio nelle rinnovabili, ma senza smantellare l’architettura fossile che sostiene la crescita. Il carbone resta centrale, il nucleare avanza, le grandi dighe e le reti ad altissima tensione garantiscono controllo e continuità. La differenza è che tutto avviene sotto la regia dello Stato, con una visione di lungo periodo. La Cina non corre per essere virtuosa, corre per essere dominante. E nel frattempo costruisce una supremazia industriale nelle filiere chiave della transizione: pannelli solari, batterie, terre rare, componenti critici. La transizione, per Pechino, è uno strumento di potere, non un atto di espiazione.L’Europa, invece, sembra muoversi in un’altra dimensione. Qui la transizione energetica è stata caricata di un valore quasi morale, trasformata in un dovere assoluto. L’uscita accelerata dalle fonti fossili è avvenuta senza una reale alternativa strutturale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: costi dell’energia più elevati, difficoltà industriali crescenti, perdita di competitività. Bruxelles ha confuso la leadership climatica con la rinuncia strategica, come se l’esempio bastasse a compensare la perdita di capacità. Ma il mondo non funziona per imitazione morale. Funziona per rapporti di forza.Il punto cruciale è che l’energia non è neutrale. È un moltiplicatore di potenza. Chi la governa rafforza la propria sovranità; chi la limita per principio riduce il proprio spazio politico. Stati Uniti e Cina hanno scelto di adattare la transizione ai loro interessi nazionali. L’Europa ha scelto di adattare se stessa alla transizione, accettando vincoli che altri si guardano bene dall’assumere. In questo squilibrio si annida una fragilità profonda: senza energia abbondante e accessibile non esiste autonomia strategica, non esiste politica industriale, non esiste voce geopolitica.La grande divergenza energetica non riguarda solo le emissioni o le scadenze climatiche. Riguarda il rapporto tra Stato e mercato, tra ideologia e realtà, tra ambizione e capacità. È la linea di frattura tra chi considera l’energia una leva di potere e chi la tratta come una colpa da espiare. In un mondo che torna competitivo, frammentato e instabile, questa distinzione è destinata a pesare sempre di più.Alla fine resta una domanda scomoda: l’Europa sta guidando il cambiamento o sta pagando il prezzo di averlo trasformato in una religione civile? Mentre Washington e Pechino accumulano capacità, infrastrutture e margini di manovra, Bruxelles continua a misurarsi con le conseguenze delle proprie scelte. E l’elettricità, silenziosa ma implacabile, continua a raccontare dove si concentra oggi il potere reale.