di Giuseppe Gagliano –Lo sciopero della fame avviato il 22 dicembre da esponenti politici e legali tunisini non è un gesto simbolico isolato, ma l’ultimo segnale di una frattura profonda tra potere esecutivo e società civile. Il Fronte di Salvezza Nazionale ha scelto una forma estrema di protesta per denunciare quella che definisce la criminalizzazione sistematica dell’attività politica e della libertà di parola, trasformate da diritti costituzionali in fattori di rischio penale.Al centro della mobilitazione c’è la detenzione dell’avvocato e oppositore Ayachi Hammami, figura storica della difesa dei diritti umani, arrestato e condannato con accuse di terrorismo e cospirazione contro la sicurezza dello Stato. Un impianto accusatorio che, secondo numerose organizzazioni internazionali, non regge alla prova dei fatti ma risponde a una logica politica precisa: neutralizzare l’opposizione attraverso il diritto penale.La protesta non riguarda solo la sorte di Hammami, ma investe l’intero sistema giudiziario. I detenuti parlano apertamente di una magistratura priva di indipendenza, sottoposta al controllo diretto dell’autorità esecutiva. È una denuncia grave, che trova eco nella decisione di 32 avvocati tunisini, tra cui ex presidenti dell’Ordine, di aderire allo sciopero della fame contro quelli che definiscono “processi ingiusti”.Quando il mondo legale, tradizionalmente prudente, ricorre a forme di lotta così radicali, significa che il conflitto ha superato la dimensione politica ed è entrato in quella istituzionale. Non è più una disputa tra governo e opposizione, ma uno scontro sul significato stesso di giustizia.La condanna a cinque anni di carcere inflitta a Hammami si inserisce in un maxi-processo che coinvolge circa 40 persone tra leader politici, avvocati, imprenditori, giornalisti e attivisti. Accuse eterogenee, pene durissime, appelli respinti e sentenze fino a 45 anni di reclusione delineano un quadro che le ONG descrivono come una costruzione giudiziaria a fini repressivi.Le parole di Human Rights Watch sono nette: non giustizia, ma processi farsa. L’elemento più rivelatore è che molti imputati sono accusati di atti politici ordinari, tra cui incontri con diplomatici, attività associative, contatti con organizzazioni internazionali, trasformati retroattivamente in minacce alla sicurezza nazionale.Nel video preregistrato diffuso dopo il suo arresto, Hammami ha indicato senza ambiguità il presidente Kais Saied come responsabile politico della sua detenzione. È un’accusa che si innesta in un percorso ormai chiaro. Dal 25 luglio 2021, con la sospensione del Parlamento e la concentrazione dei poteri nelle mani del presidente, l’eccezione è diventata la regola.La riscrittura della Costituzione, il controllo delle istituzioni indipendenti e la repressione selettiva degli oppositori hanno progressivamente svuotato l’esperimento democratico tunisino. Quello che l’Occidente aveva celebrato come il successo della Primavera araba si è trasformato in un modello di restaurazione autoritaria, giustificata con il linguaggio dell’ordine e della sicurezza.Secondo International Crisis Group, il peggioramento della situazione economica ha giocato un ruolo centrale. Inflazione, disoccupazione, corruzione e criminalità hanno eroso la legittimità del potere. Incapace di offrire soluzioni strutturali, il governo ha scelto una strategia alternativa: proiettare forza, individuare nemici interni, trasformare figure di riconosciuta integrità in bersagli giudiziari.È una dinamica classica nei regimi in difficoltà: quando il consenso manca, si governa con la paura.Il paradosso tunisino è tutto qui. Il Paese da cui partirono le rivolte del 2010-2011, innescate dal gesto disperato di Mohamed Bouazizi, è oggi uno dei casi più emblematici di regressione democratica nel Nord Africa. La Tunisia non è tornata semplicemente indietro: ha imboccato una strada nuova, in cui il linguaggio della legalità viene usato per giustificare la repressione.Lo sciopero della fame, nelle parole degli stessi detenuti, trasforma le carceri in luoghi di resistenza politica. È un segnale drammatico, che indica quanto si sia ristretto lo spazio pubblico nel Paese. La Tunisia di oggi non reprime solo le opposizioni: reprime l’idea stessa che il dissenso possa esistere senza essere criminalizzato.In questo contesto, la vera questione non è la sorte di un singolo avvocato o di un gruppo di detenuti, ma se lo Stato tunisino sia ancora disposto a riconoscere limiti al proprio potere. Finché la risposta resterà negativa, ogni processo sarà politico e ogni prigione un campo di battaglia.