di Giuseppe Gagliano – Una democrazia non si consuma in un solo atto. Si logora per accumulo, per piccole deroghe che diventano precedenti, per eccezioni che smettono di essere tali. È in questo spazio grigio che si colloca l’estensione della cosiddetta “legge al-Jazeera”, approvata dalla Knesset e trasformata da misura emergenziale in strumento ordinario di governo. Non più una risposta a una guerra in corso, ma una leva permanente che consente all’esecutivo di intervenire direttamente contro i media stranieri, anche in assenza di uno stato di emergenza e senza il vaglio preventivo di un tribunale.Il dato politico è chiaro: la sicurezza nazionale viene elevata a criterio autosufficiente, capace di scavalcare l’equilibrio dei poteri e di comprimere il diritto all’informazione. Non è una novità assoluta nella storia israeliana, ma è una svolta per la sua formalizzazione legislativa e per la sua durata nel tempo.Il deterioramento della libertà di stampa in Israele non nasce oggi. Lo certificano indicatori internazionali che negli ultimi anni hanno registrato un arretramento costante. La perdita di posizioni negli indici sulla libertà dei media non è solo un dato simbolico: riflette un clima di crescente pressione politica, restrizioni sull’accesso alle informazioni da Gaza, sanzioni economiche e amministrative contro testate critiche, e un ambiente sempre più ostile per i giornalisti, inclusi quelli israeliani.La nuova legge si innesta dunque su un terreno già fragilizzato. Il passaggio decisivo è l’eliminazione dell’obbligo di autorizzazione giudiziaria: il ministro delle Comunicazioni, con il consenso del primo ministro e di un comitato governativo, può disporre la chiusura di uffici, il sequestro di apparecchiature e il blocco dei siti web di un’emittente straniera ritenuta una minaccia. Il tutto sulla base di un parere “professionale”, non meglio definito, che amplia enormemente la discrezionalità politica.Dal punto di vista strategico-militare, l’argomento del governo è lineare: l’informazione è parte integrante del campo di battaglia. Nelle guerre contemporanee, la dimensione cognitiva pesa quanto quella cinetica, e controllare i flussi informativi significa ridurre la capacità del nemico di influenzare l’opinione pubblica, interna ed esterna. In questa logica, emittenti percepite come ostili vengono assimilate a strumenti operativi dell’avversario.Ma proprio qui si apre la frattura più delicata. Se ogni narrazione critica può essere classificata come minaccia alla sicurezza, il confine tra difesa e censura diventa labile. La compressione del pluralismo informativo non produce necessariamente maggiore sicurezza: rischia piuttosto di indebolire la resilienza democratica, sostituendo il consenso con l’obbedienza e la fiducia con il controllo.Sul piano geopolitico, la legge ha un effetto che va oltre i confini israeliani. Colpisce in primo luogo i media stranieri, inviando un messaggio chiaro agli attori internazionali: l’accesso al territorio e al pubblico israeliano è subordinato all’allineamento politico. Questo può inasprire le relazioni con partner regionali e globali, alimentare accuse di doppio standard e rafforzare la narrativa di un Israele sempre più isolato sul piano dei valori, anche se ancora solido sul piano militare.Esiste poi una dimensione economica spesso trascurata. La libertà di informazione è un indicatore osservato attentamente da investitori, istituzioni finanziarie e attori tecnologici. Un contesto percepito come illiberale aumenta il rischio paese, scoraggia capitali sensibili alla reputazione e può avere effetti indiretti sull’ecosistema dell’innovazione e dei media digitali, uno dei punti di forza storici di Israele.Le critiche interne, provenienti anche da settori istituzionali e da esponenti della maggioranza, segnalano che il tema non è marginale. Non si tratta di difendere una singola emittente o una specifica linea editoriale, ma il diritto dei cittadini ad accedere a informazioni plurali. Quando lo Stato decide cosa può essere visto, letto o ascoltato, la libertà di stampa smette di essere un diritto e diventa una concessione.La trasformazione di una misura eccezionale in norma stabile rappresenta il vero nodo politico. È il segnale di una democrazia che, sotto la pressione della guerra e della paura, accetta di restringere i propri spazi di libertà in nome dell’efficienza. La storia insegna che questi spazi, una volta chiusi, raramente vengono riaperti senza conflitto.Israele resta una democrazia, ma una democrazia sotto stress. E il modo in cui gestisce l’informazione oggi dirà molto su che tipo di democrazia vorrà essere domani.