I numeri dell’intelligenza artificiale non raccontano una storia così apocalittica

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Le Monde conta i caduti. Banche, assicurazioni, informatica: i settori che per primi hanno abbracciato l’intelligenza artificiale sono gli stessi che per primi ne pagano il prezzo in carne umana. Oltre 130.000 posti nei piani di ristrutturazione che citano l’AI nel 2025. Un rapporto britannico parla di tre milioni di posti a rischio nel Regno Unito entro il 2035.Eppure i numeri, a guardarli bene, raccontano una storia meno apocalittica. Meno dell’1% delle competenze lavorative è oggi pienamente automatizzabile. Il resto si trasforma. La maggioranza delle aziende non vede ancora ritorni misurabili dai progetti di intelligenza artificiale. I guadagni di produttività stimati per il prossimo decennio? Decimali.Allora perché questa paura così viscerale? Forse non è il lavoro in sé. È lo status, la routine, l’identità professionale: tutte cose che avevamo cucito addosso al badge aziendale.Raoul Vaneigem, in “Noi che desideriamo senza fine”, scrive che gli uomini hanno rinunciato a vivere per assicurare la sopravvivenza di un’economia. Generazioni intere hanno barattato il tempo con il denaro, il senso con la sicurezza, il desiderio con il dovere. E ora che quel baratto vacilla, ci scopriamo nudi. Il paradosso è tutto qui. Ci angosciamo per la perdita di qualcosa che ci era già stato sottratto. Piangiamo catene che scambiavamo per radici.Stiamo entrando in una costellazione di patti del lavoro: resta l’idea della carriera lineare e dell’identità legata al badge, ma si affianca sempre più un patto digitale a mosaico, fatto di attività diverse che ciascuno ricompone nella propria vita, spesso assistite dall’AI. Non è un bivio: è un campo di forme che si sovrappongono. La grammatica del passato si consuma; quella nuova non è ancora scritta. E per non trasformare la libertà in precarietà servono regole comuni: tutele, formazione continua, diritti portabili e tempi di vita difesi. Finora abbiamo saputo produrre merci che non bastano più. La prossima fase potrebbe produrre senso, se impariamo a nominare ciò che desideriamo.La pressione su ognuno di noi è reale. Ma per la prima volta abbiamo anche strumenti per ripensare il lavoro, non solo subirlo.C’è una ribellione sotterranea che cova sotto la superficie delle statistiche. Un rifiuto che non trova ancora parole ma che pulsa ovunque: nelle dimissioni silenziose, nella ricerca di significato, nella domanda che tutti si fanno e pochi osano pronunciare. Davvero devo passare così il mio unico tempo sulla Terra?La tecnologia da sola non basta, il mercato non si corregge da solo. Servono istituzioni che negoziano, contratti che tutelano, formazione che non sia a carico di chi è già fragile. Ma soprattutto serve quello che gli umani hanno sempre fatto nei passaggi d’epoca: studiare, capire, adattarsi. Non per difendere il vecchio mondo, ma per costruirne uno dove la vita non sia più merce di scambio.È come se fossimo tutti su una nave che ha già salpato. Non l’abbiamo deciso noi, ma siamo in mare aperto. Colombo credeva di andare alle Indie. Finì in America. Anche noi crediamo di sapere dove ci porta questa transizione. Probabilmente ci sbagliamo. Ma senza una mappa per orientarci, rischiamo di attraversare il cambiamento senza capirlo.La mappa la costruisci sul campo: nei luoghi di lavoro, nei conflitti quotidiani, negli errori che insegnano. La costruisci restando curiosi, come hanno fatto tutti quelli che sono venuti prima di noi e hanno attraversato rivoluzioni più grandi di questa.Desiderare senza fine. Non è ingenuità. È l’unica forma di realismo che ci resta.L'articolo I numeri dell’intelligenza artificiale non raccontano una storia così apocalittica proviene da Il Fatto Quotidiano.