Forse servirà più di un brindisi a Xi Jinping per sperare in un anno migliore di quello trascorso per la Cina. A dispetto di un capodanno che per il Dragone arriverà solo tra qualche settimana (il 2026 sarà l’anno del cavallo di fuoco), per Pechino è già tempo di tirare qualche somma. E non c’è da stare molto allegri. Tolti per un momento l’aggressività industriale cinese al di fuori dei propri confini e l’imminente ritorno dei sussidi su larga scala, sponda tecnologia, le cose dentro le mura domestiche non vanno granché bene. A mettere in sequenza alcuni elementi, il quadro appare piuttosto chiaro.Polmoni cinesiTanto per cominciare, ci sono i consumi e gli investimenti nel mattone, che negli ultimi mesi hanno registrato un inatteso e per questo clamoroso, ripiegamento. Se i cinesi non comprano più case, un pezzo dell’economia non tira più. Ma questa è solo una gamba del Dragone. L’altra si chiama grandi imprese a controllo statale. I veri polmoni della Cina, dove in ogni consiglio di amministrazione c’è un rappresentate del partito. Sono loro che investono, che comprano, che muovono denaro.Ebbene, le gigantesche aziende cinesi hanno la tosse e anche piuttosto forte. Tanto che i ricavi industriali della Cina, relativi alle aziende con più di 20 milioni di fatturato, sono crollati del 13,1% a novembre rispetto a un anno prima, secondo i dati del National Bureau of Statistics. Una caduta che ha inevitabilmente impattato anche sugli utili, aumentati nello stesso mese rispetto al novembre del 2024 dello 0,1%, quando la previsione del governo era dell’1,9%.Come si spiega? Tutto molto semplice: la seconda economia più grande del mondo è stata devastata da pressioni deflazionistiche, ovvero prezzi bassi per eccesso di offerta, conseguenza questa della debole domanda interna. Unitamente al calo generalizzato e poc’anzi citato degli investimenti. E pensare che proprio pochi giorni fa Xi Jinping ha chiesto alle grandi imprese statali centrali di fungere da pilastro dello sviluppo nazionale, sollecitandole a guidare l’aggiornamento industriale e a garantire il controllo delle tecnologie critiche nella prossima fase di crescita del Paese. Lecito domandarsi come sarà possibile in queste condizioni.Debito di sopravvivenzaNon è finita. Nella cerchia dei guai cinesi entra di diritto la mai risolta questione della crisi in cui versano le immense province del Dragone, sorta di mastodontiche amministrazioni locali. Lontano migliaia di chilometri da Pechino, da quando i governi periferici hanno finanziato la costruzione di case rimaste invendute per i motivi di cui sopra, gli enti locali sono costretti ormai a vendere i titoli di Stato cinesi per sopravvivere.In sostanza, essendo a corto di cassa ma avendo sottoscritto ingenti quantità di debito sovrano negli anni addietro, non rimane che sbarazzarsi proprio di quel debito. I governi locali altamente indebitati sperano che le vendite contribuiranno a risolvere i problemi di liquidità. E tale è la necessità di denaro che un governatore locale, Li Dianxun, a capo della provincia di Hubei, ha coniato lo slogan: “Trasforma ogni possibile risorsa statale in un asset”. Esattamente quello che sta accadendo.