Non è stato “un comizio d’odio contro l’America”, come preconizzato da Mike Johnson, speaker della Camera. Non è stato un raduno di “immigrati clandestini, terroristi di Hamas e violenti criminali che sono la base politica del partito democratico”, come anticipato dalla portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt. È stata invece una festa, giocosa e irriverente, di attivisti, famiglie con bambini, cittadini, che hanno sfilato, cantato, urlato in centinaia di città USA contro le politiche di Donald Trump. Difficile fare una stima precisa, ma milioni di americani hanno preso parte sabato al “No Kings Day”. L’affluenza, di molto superiore a quella registrata in giugno a un’analoga giornata di protesta, ha sorpreso gli stessi organizzatori e rivela il grado di esasperazione, di opposizione che l’amministrazione Trump ha creato in settori significativi di popolazione. È però proprio il successo del “No Kings Day” a stimolare una riflessione su presente e futuro del partito democratico e dei progressisti USA. E qui, più che certezze, si incontrano limiti, dubbi, problemi.Sono molte le ragioni che hanno spinto milioni di americani a protestare. Tra queste, la violenta campagna anti-immigrazione del presidente, la sua politica sui dazi, il dispiegamento della Guardia Nazionale nelle città, i tagli all’amministrazione pubblica, la piega sempre più autoritaria che hanno preso i suoi ordini esecutivi e le sue direttive. Sabato al centro della protesta c’era ovviamente sempre lui, Trump, che secondo i critici si comporta come un “re”, in un Paese che i re li ha sempre combattuti. A una prima, veloce considerazione, pare del tutto naturale che la mobilitazione si sia concentrata in modo così diretto ed esclusivo sul presidente. Le proteste sono sempre “contro” qualcuno o qualcosa. E Trump è appunto il presidente, colui che in questi anni ha incarnato le politiche più populistiche e conservatrici della destra americana. Le due cose, sommate, porterebbero dunque a ciò che abbiamo assistito. Un atto di potente, radicale rigetto di Donald Trump.Se si guardano le cose da un altro angolo visuale, si può però riconoscere nel “No kings Day” qualcosa di diverso. In particolare, la conferma di una strategia che i democratici hanno usato, con più o meno fortuna, alle presidenziali 2016, poi a quelle del 2020, quindi ancora nel 2024, oltre che nella miriade di elezioni, nazionali e locali, che si sono tenute in questi anni. La strategia indica in Trump “colui che porta un attacco senza precedenti alla nostra democrazia” (copyright Hillary Clinton), una “minaccia per la democrazia americana” (parole di Joe Biden), il fautore “di una guerra alla democrazia” (dichiarazione di Gavin Newsom). La strategia, così ossessivamente centrata sulla “minaccia Trump”, ha appunto avuto alterne fortune. Ha fallito nel 2016 e nel 2024. Ha avuto successo nel 2020. Appare comunque chiaro che essa resta ancor oggi il principale strumento di lotta politica di molti democratici e progressisti. Il “No Kings Day” ne è l’ulteriore manifestazione.Non c’è comunque solo il “No Kings Day”. Il prossimo 4 novembre si terranno una serie di elezioni in giro per gli Stati Uniti – si voterà per alcuni seggi alla Camera, per le cariche di governatore di New Jersey e Virginia, per decine di sindaci, tra cui quello di New York, per alcune assemblee legislative. Se si dà un’occhiata alle campagne elettorali democratiche, a sorprendere è una cosa. Quanto esse siano ancora e sempre concentrate sulla “minaccia Trump”. In New Jersey, uno spot dem accusa il candidato repubblicano a governatore, Jack Ciattarelli, di voler essere “il Trump di Trenton”. In Virginia la candidata democratica alla presidenza, Abigail Spanberger, ha speso milioni di dollari per dipingere la sua rivale repubblicana, Winsome Earle-Sears, come accolita del presidente Trump. “Sears parla per Trump”, si spiega in uno spot. La storia non cambia in California, dove il 4 novembre i cittadini sono chiamati a votare un referendum sui distretti elettorali convocato dal governatore Newsom per contrastare i disegni del presidente.A nove anni dalla sconfitta di Hillary Clinton alle presidenziali, a cinque dalla vittoria di Joe Biden e a un anno dalla sconfitta sempre di Biden, il tema centrale della politica democratica resta lo stesso. La democrazia messa a rischio da Trump. Si può essere più o meno d’accordo con l’analisi, ma il punto non è questo. Il punto è che la strategia ha dimostrato di non essere particolarmente efficace, tanto che Trump – dieci anni dopo la sua prima campagna presidenziale – è più vegeto che mai e sta ridisegnando gli equilibri politici, istituzionali, economici, sociali USA. Il consenso di cui il presidente gode tra i repubblicani resta poi granitico. È vero che, su base nazionale, i suoi indici di gradimento sono piuttosto bassi, intorno al 42 per cento. Ma Trump non è mai stato un presidente particolarmente popolare. Questo non gli ha però appunto impedito di restare saldamente alla guida della rivoluzione conservatrice. Questo non gli impedisce oggi di prendere decisioni che indignano e provocano reazioni esasperate.Dopo la sconfitta di Biden, nel novembre 2024, furono molti tra gli stessi democratici a dire che per il partito doveva iniziare un soul searching, una ricerca delle ragioni della sconfitta e una migliore definizione della propria identità. Il problema è che i democratici restano un corpo diviso, frammentato tra mille spinte, tensioni, ambizioni. Una parte del partito – dal senatore Chris Murphy del Connecticut al governatore dell’Illinois JB Pritzker al battitore libero Bernie Sanders – ha abbracciato entusiasticamente il “No Kings Day”. “Oggi in tutta l’America, in numeri capaci di eclissare qualsiasi altro giorno di protesta nella storia della nostra nazione, gli americani dicono a gran voce e con orgoglio che siamo un popolo libero”, ha detto proprio Murphy. Altri settori mantengono un atteggiamento più distaccato – lo testimonia il messaggio di circostanza con cui Kamala Harris ha invitato gli americani a manifestare “pacificamente” sabato -, non fosse altro perché proprio durante i comizi del “No Kings Day” si sono ascoltati accenti critici proprio nei confronti della leadership democratica.Le stesse ambiguità, gli stessi dubbi e oscillazioni, si verificano in questi giorni sullo shutdown. I democratici non intendono votare per il rifinanziamento del governo federale, sino a quando i repubblicani non diranno sì alla proroga dei sussidi dell’Obamacare, in scadenza a fine anno. Il partito si è sinora mostrato saldo, unito, non ha ceduto alle pressioni di Casa Bianca e repubblicani. Quella sulla sanità è del resto una battaglia popolare e, almeno sinora, i sondaggi dicono che la maggioranza degli americani fa calare sui repubblicani, non sui democratici, la responsabilità della chiusura del governo federale. Ma il peso dello shutdown comincia a farsi sentire. Hanno ridotto la loro attività molti uffici giudiziari, aeroporti, agenzie studi del governo. Diversi dipendenti federali non percepiscono da settimane lo stipendio. L’amministrazione usa la situazione per ordinare tagli al personale federale e a molti programmi. La situazione si fa insomma sempre più complicata e non è escluso che una manciata di democratici, preoccupati dall’apparire irresponsabili, offrano i loro voti ai repubblicani per riaprire il governo federale.Una possibile via d’uscita – una possibile strategia per il futuro – la sta in quesii giorni indicando Zohran Mamdani, candidato sindaco di New York. In campagna elettorale, Mamdani ha ridotto al minimo le critiche a Trump e parlato soprattutto degli affitti fuori controllo in città, del costo della vita, di sanità e trasporti. L’approccio ha funzionato. Mamdani guida nei sondaggi di diversi punti sul suo rivale, il più moderato e di establishment Andrew Cuomo. È però improbabile che la politica di progressismo radicale di Mamdani venga alla fine fatta propria proprio dall’establishment. Sono dunque diverse, anche in decisa alternativa, le strade che si presentano davanti ai democratici. Il partito, per il momento, non sembra aver scelto quelle da seguire. Di qui la frustrazione di molti militanti, che avvertono la timidezza e l’inconcludenza dei loro leader. Di qui la prepotenza di Trump e dei suoi, che sanno di poter proseguire tranquillamente, almeno per il momento, nella navigazione. “Who cares”, chi se ne importa, ha significativamente risposto una portavoce della Casa Bianca a chi le chiedeva una reazione alle proteste del “No Kings Day”. Il soul searching democratico, se mai è iniziato, è insomma ancora lontano dall’approdo finale. La cosa che tiene insieme il partito, oggi come ieri, è la ripulsa di Trump. Il dubbio è che non basti per battere Trump.L'articolo No Kings Day, i democratici confermano la strategia: il radicale rigetto di Trump. Ma 2 volte su 3 non ha funzionato proviene da Il Fatto Quotidiano.