Droni cinesi nel mirino. Come si sono comportate le corti americane nel caso Dji

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L’attacco a DJI Il 26 settembre 2025, la Corte distrettuale degli Stati Uniti per il Distretto di Columbia ha confermato la correttezza della scelta del Department of War di qualificare la Sz Dji Technology Co. (“Dji”) come “azienda militare cinese” (Chinese Military Company – Cmc) secondo quanto previsto dalla section 1260H del National Defense Authorization Act (Ndaa) per l’anno fiscale 2021.  Dji era stata inserita in questa blacklist in quanto il Pentagono aveva ritenuto che Dji potesse essere qualificata come Cmc per via di un di un generico “supporto” da parte del governo cinese.  L’azienda cinese aveva contestato questa interpretazione del Pentagono adducendo svariati motivi, dall’assenza di prove di un proprio coinvolgimento significativo nel comparto militare cinese, all’adozione di scelte commerciali dirette a evitare la fornitura di prodotti a Paesi coinvolti in conflitti e all’assenza di investitori riconducibili al governo di Pechino. Il giudice ha escluso che Dji fosse sotto il controllo del Partito comunista cinese, collegata al Ministero dell’industria o parte della Military-Civilian Fusion (la dottrina in base alla quale fra il settore civile e quello militare c’è un’osmosi continua in termini di ricerca e prodotti, rendendo difficile stabilire dove finisce l’uno e dove inizia l’altro). Tuttavia, ha dato maggior peso alle dichiarazioni della Difesa americana sul fatto che l’azienda avrebbe ricevuto un supporto dal governo di Pechino e che i suoi prodotti rientrano nella categoria di quelli a doppio uso. Dunque, non ritenendo sufficientemente robuste le argomentazioni del costruttore di droni, il giudice decideva di confermare la scelta di includere Dji nella “lista nera” predisposta dal Pentagono, così precludendo l’accesso alle forniture per il comparto militare.  Le criticità giuridiche della decisione Questa decisione ha un importante significato geopolitico, ma per comprenderlo è necessario innanzi tutto analizzarne i contenuti in termini strettamente giuridici. L’indebolimento degli standard di prova Il primo aspetto critico della decisione riguarda il valore probatorio che il giudice ha attribuito alle valutazioni del Dipartimento della guerra. Per alcune, il magistrato ha ritenuto che non ci fosse bisogno di ulteriori verifiche in contraddittorio, mentre altre —pur parzialmente omissate— sono state ritenute accoglibili per via della loro provenienza istituzionale. In altri termini, la decisione è stata assunta sulla base di elementi incompleti, unilateralmente forniti da una delle due parti e (almeno parzialmente) senza verifica in aula.  L’alterazione del principio di parità Come capita spesso in un procedimento giudiziario che coinvolge la sicurezza nazionale gli standard per la valutazione dei comportamenti delle parti coinvolte cambiano sostanzialmente, in particolare per quanto riguarda il principio di parità —basta pensare, per esempio, all’impatto dell’invocare il segreto di Stato. Benché questo sia comprensibile, non bisogna, dall’altro lato, nascondersi il pericolo che la sicurezza nazionale diventi una sorta di parola magica per far calare il buio su qualsiasi scelta di un esecutivo sottraendola al controllo del potere giudiziario, o per comprimere gli spazi del diritto di difesa se la controversia finisce davanti a un giudice.  La prevalenza del principio di precauzione A conclusioni analoghe si perviene valutando un altro elemento critico che emerge dalla decisione: la centralità del principio di precauzione.  Data la natura preventiva del concetto di sicurezza nazionale, determinati interventi possono, e a volte devono, essere compiuti prima che si verifichi un evento negativo —dall’attentato all’esfiltrazione di informazioni. Non stupisce, dunque, che pur in assenza di prove decisive il Pentagono abbia scelto di non correre rischi.  Questo approccio può funzionare in ambito operativo ma quando viene discusso in un’aula giudiziaria dovrebbe essere utilizzato con estrema attenzione perché rompe un componente fondamentale di qualsiasi processo: la decisione deve essere assunta sulla base di un fatto verificabile. Oltre le Corti: il decoupling tecnologico in azione Fatte queste premesse, è ora possibile valutare il contesto extra-giuridico nel quale è maturato l’esito del processo e quali sono le conseguenze. La decisione sul caso Dji si inserisce in uno scenario contraddittorio dove da un lato gli Stati Uniti stanno perseguendo una strategia di indebolimento della presenza cinese nel mercato high-tech domestico, indipendentemente dal coinvolgimento militare diretto delle aziende in questione; mentre dall’altro —come evidenzia il caso dell’executive order sul caso TikTok—non sono (ancora) in grado di poter imporre un totale controllo sulle Big Tech cinesi. Un caso isolato o una strategia deliberata? In termini più generali, la scelta di applicare elasticamente gli standard normativi e di non mettere in discussione le affermazioni della Difesa anche quando le prove sono incomplete o non fornite perché classificate, lascia intendere di non essere di fronte a un caso unico o riservato ad aziende cinesi.  Una volta stabilito il precedente, infatti, nulla impedirebbe di applicare lo stesso approccio anche ad altre situazioni che non riguardano interlocutori cinesi, o che coinvolgono entità che, nella propria supply chain hanno qualche anello che, in un modo o nell’altro ha legami con Pechino.  Se così fosse, non solo le aziende cinesi, ma anche quelle occidentali o comunque non sotto il controllo di Pechino dovranno verificare se l’ampiezza interpretativa sdoganata dal caso Dji pone anche loro al rischio di essere incluse nella blacklist del Pentagono.  Per quanto questo rischio possa apparire teorico, non si può nemmeno escludere che fosse proprio questo uno degli obiettivi che l’amministrazione Usa intendeva perseguire. Infatti, di fronte al rischio di essere qualificate come potenziali componenti della Mcf cinese, più di un’azienda o struttura di servizio potrebbe spontaneamente decidere di interrompere i rapporti con Pechino, con ciò indebolendo ulteriormente la stretta orientale. La consacrazione definitiva del lawfare come strumento geopolitico Sotto un altro profilo, se il caso Dji costituisce un altro passo verso il tentativo di decoupling tecnologico dalla Cina, nello stesso tempo mostra con chiarezza come la sicurezza nazionale, quando invocata in sede giudiziaria, diventa un fattore capace di ridisegnare i confini stessi del diritto e dimostra l’incremento della prevalenza del rule by law sul rule of law anche negli ordinamenti occidentali.  Il prezzo da pagare per soddisfare la necessità tattica di colmare vuoti normativi o di fronteggiare situazioni di fatto create da attori ostili con l’obiettivo di sfruttarli pone il potere giudiziario nella scomoda condizione di dover svolgere un ruolo di supplenza in attesa dell’intervento di quello legislativo, e dunque incide sulla separazione dei poteri. La supply-chain come campo di battaglia Un ultimo profilo che merita di essere evidenziato è il crescente ruolo della supply chain come obiettivo strategico. La filiera tecnologica non è più neutrale, ma la sua ricostruzione lungo altre direzioni è difficilmente ottenibile sul breve periodo, specie considerando l’assenza di una sufficiente disponibilità di materie prime e di capacità produttiva del blocco occidentale e la sua frammentazione. L’accresciuta importanza geopolitica della low-tech Benché le analisi tendano spesso ad occuparsi degli impatti geopolitici dell’alta tecnologia —chip ultrasottili, architetture di supercalcolo, nuovi materiali— la low tech, la tecnologia “comune” ha iniziato a reclamare il proprio spazio.  La dottrina cinese basata sulla Mcf, infatti, supera il concetto di tecnologie a doppio uso e adotta un approccio basato sulla continuità bidirezionale dello scambio di ricerche e applicazioni, oltre che di prodotti, fra il settore militare e quello civile, in particolare delle tecnologie di largo consumo. Un effetto collaterale della Mcf è la difficoltà di individuare con certezza l’appartenenza di un’azienda al comparto militare cinese, consentendole così di operare anche lambendo gli ambiti della sicurezza nazionale senza essere immediatamente riconosciuta come un soggetto potenzialmente critico.  In definitiva, dunque, il caso Dji è l’ennesima prova che la sicurezza nazionale è ormai la vera moneta della competizione globale non solo nell’alta tecnologia ma anche in quelle applicazioni trasversali, come quelle dei droni per uso civile ma non solo, che proprio per questo possono rappresentare una minaccia difficilmente controllabile se non si interviene per tempo, anche a costo di indebolire i cardini giuridici del sistema.  Sul lungo periodo, tuttavia, questo potrebbe creare problemi non meno seri di quelli che si intende gestire nell’immediato perché oltre agli effetti sostanziali sul sistema dei diritti, indebolirebbe un argomento cardine della narrativa pubblica a sostegno dei valori occidentali: il rispetto del primato della legge.