Il Kashmir che vedo oggi non è solo turismo, ma quello dei cittadini che chiedono dignità e voce

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Cosa succede in Azad Jammu e Kashmir e perché la gente è in piazza?Quando dico “Kashmir”, so già cosa immagina la maggior parte delle persone che mi ascoltano: valli verdi, fiumi turchesi, montagne immacolate. Un paradiso da Instagram, con casette di legno e cieli da cartolina. Anch’io, la prima volta che ci sono stato, mi sono lasciato incantare da quell’immagine. Ma dopo anni a seguire la regione, oggi sento il bisogno di dire con chiarezza: quella foto patinata non basta più a raccontare il Kashmir. In Azad Jammu e Kashmir (AJK), il settore amministrato dal Pakistan, in queste settimane la realtà ha un altro colore: quello delle proteste, delle barricate e della rabbia sociale.Secondo me, è proprio questo scarto tra immaginario e realtà che rende così difficile capire cosa stia succedendo. La cronaca recente è eloquente: nel novembre 2023 i primi cortei, nel maggio 2024 scontri più duri con feriti da entrambe le parti. Allora il premier federale Shehbaz Sharif aveva cercato di calmare le acque con 83 milioni di dollari di sussidi su grano ed elettricità. Una toppa, non una soluzione. Infatti a fine settembre la piazza è tornata, più arrabbiata di prima. A Muzaffarabad, sul ponte Neelum, due cortei contrapposti sono esplosi in violenza: un manifestante, Muhammad Sudhir, è rimasto ucciso, e decine di persone sono finite in ospedale.Vi spiego meglio, per capire la radice di questa protesta recente del 29 settembre 2025, non basti guardare agli scontri di piazza, né ridurla a uno scontro identitario o geopolitico, come spesso accade quando si parla di Kashmir. Bisogna ascoltare cosa chiedono i manifestanti. L’Awami Action Committee (AAC), il movimento che guida le proteste, ha messo sul tavolo un programma di 38 punti. Lo si può riassumere in tre parole chiave: dignità, trasparenza, rappresentanza. Nel concreto significa fine della “VIP culture” fatta di scorte e privilegi per i politici, stop alla doppia tassazione, lotta reale alla corruzione, più risorse per sanità e istruzione, salario minimo effettivo, strade in ordine, compensazioni giuste per chi ha perso terre a causa delle dighe. In altre parole: servizi, giustizia sociale, responsabilità delle istituzioni.A mio avviso, qui non stiamo parlando di un capriccio locale, ma di questioni universali. Qualsiasi cittadino del mondo si riconoscerebbe in queste rivendicazioni. Eppure c’è un punto che fa saltare il banco: l’abolizione dei 12 seggi riservati ai rifugiati nell’Assemblea legislativa di AJK. Sono posti simbolici, pensati per dare voce a chi fuggì dalle guerre del 1947 e del 1965. Ma oggi, secondo l’AAC, quei seggi servono solo a manipolare le maggioranze parlamentari. Qui sta il cuore politico del conflitto: toccare quei privilegi significa mettere in discussione l’architettura stessa del potere locale. Non sorprende che il governo abbia risposto con un secco no.Ripercorro mentalmente la cronologia e vedo un copione già scritto: accuse reciproche, tribunali chiamati in causa, blackout di Internet che impediscono verifiche indipendenti, tavoli di dialogo che si arenano. È successo anche a fine settembre, con un negoziato di tredici ore tra governo locale, inviati federali e AAC che si è infranto proprio sul tema dei seggi e dei privilegi. Alla fine, la strada ha prevalso sulle istituzioni.C’è chi mi obietta, “Ma così si distrugge il turismo, la principale ricchezza della regione”. È vero che il governo di AJK parla di un calo del 48% nei flussi turistici, con perdite miliardarie. Però, mi chiedo, il turismo può davvero reggere da solo un patto sociale logorato? L’AAC sostiene che senza riforme strutturali quella è solo una rendita fragile, destinata a sgretolarsi alla prima crisi politica o climatica. E in effetti i numeri del bilancio locale parlano chiaro: metà delle risorse arrivano da tasse interne, metà da trasferimenti di Islamabad. Se non si ridisegna il rapporto tra spesa, entrate e priorità, il castello si regge solo su sabbia.Quello che mi colpisce, rispetto al passato, è il bersaglio della protesta. Un tempo il dito era puntato quasi sempre contro il governo federale pakistano; oggi la piazza prende di mira il governo di AJK e la riforma dell’Assemblea. È un cambiamento significativo, i cittadini chiedono che la politica locale smetta di essere un simulacro e diventi vera rappresentanza. E questo, per l’establishment, è forse più destabilizzante di qualunque slogan anti-Islamabad.Ritengo che ci siano tre punti fermi da cui non si può prescindere. Primo: chi incendia, devasta o spara, che sia manifestante, contro-manifestante o poliziotto, deve essere perseguito. Punto. Non c’è causa che giustifichi la violenza. Secondo: dentro il perimetro costituzionale, molte richieste dell’AAC sono legittime e condivisibili. Parlano la lingua universale della buona governance. Terzo: serve un processo politico vero, che riporti il conflitto dentro le aule parlamentari e fuori dalle strade. Finché la politica non ascolta e non rappresenta, la piazza diventa l’unico microfono possibile.Il Kashmir che vedo oggi non è solo quello delle valli da sogno, ma quello di cittadini che chiedono dignità e voce. Non so se questa ondata di proteste riuscirà a scardinare i privilegi, o se verrà assorbita e dimenticata come altre. Ma una cosa mi sembra certa, nessuna cartolina, per quanto perfetta, potrà mai coprire il rumore di una società che chiede di essere ascoltata.L'articolo Il Kashmir che vedo oggi non è solo turismo, ma quello dei cittadini che chiedono dignità e voce proviene da Il Fatto Quotidiano.