di Giuseppe Gagliano – Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem oltre 2.500 palestinesi sono stati uccisi negli ultimi mesi nel tentativo di raggiungere gli aiuti alimentari nel nord di Gaza, dove centinaia di migliaia di persone vivono in condizioni di carestia. Il valico di Zikim, unico corridoio rimasto per far entrare i convogli umanitari fino a settembre, è diventato il simbolo di una tragedia: folle di civili che percorrono chilometri a piedi per un sacco di farina, trovandosi sotto il fuoco delle armi. B’Tselem e Medici per i Diritti Umani-Israele accusano le autorità israeliane di usare la fame come strumento di pressione militare, arrivando a parlare di genocidio e di crimini contro l’umanità, con ospedali distrutti e cure negate.L’uso della carestia come mezzo bellico è proibito dalle Convenzioni di Ginevra. Se le accuse saranno confermate, Israele rischia di trovarsi di fronte a un procedimento per crimini di guerra dinanzi alle giurisdizioni internazionali. Al tempo stesso l’inerzia della comunità internazionale nel garantire corridoi sicuri e la protezione dei convogli umanitari mina la credibilità delle Nazioni Unite e alimenta la percezione che la popolazione civile di Gaza sia lasciata senza tutela.Sul piano politico, il presidente statunitense Donald Trump ha presentato all’Assemblea generale dell’ONU un piano in 21 punti per porre fine alla guerra: cessate-il-fuoco permanente, rilascio simultaneo degli ostaggi, ritiro progressivo delle forze israeliane fino alle posizioni del cessate-il-fuoco di inizio anno e dispiegamento di una forza internazionale di stabilizzazione che amministri temporaneamente Gaza, escludendo Hamas. Il progetto abbandona la controversa ipotesi della “Gaza Riviera” – che prevedeva il trasferimento forzato della popolazione – e ha ricevuto un’apertura da parte di Mahmoud Abbas, pronto a collaborare alla gestione dell’enclave sotto supervisione internazionale.Il piano, sostenuto da alcuni leader di Turchia, Qatar, Arabia Saudita, Egitto, Pakistan, Giordania, Indonesia ed Emirati, incontra però almeno tre ostacoli: l’eventuale rifiuto di Israele a ridispiegare le truppe, l’incertezza sul comando e sulle regole di ingaggio della forza internazionale, e l’assenza di una strategia credibile per la ricostruzione economica e sociale di Gaza. Senza progressi su questi punti, il cessate il fuoco rischia di restare un atto provvisorio in un conflitto che si riaccende a ogni crisi.La vicenda rivela quanto la dimensione umanitaria e quella geopolitica siano intrecciate: la fame diventa arma sul terreno e argomento di negoziato ai tavoli della diplomazia. L’Europa appare spettatrice, divisa tra sostegno umanitario e cautela politica, mentre Washington prova a recuperare un ruolo di mediatore. Ma finché la tutela dei civili non sarà priorità condivisa da tutte le parti, ogni accordo rischierà di essere solo tregua temporanea. La sfida è trasformare il cessate il fuoco in un percorso politico credibile, che restituisca a Gaza non solo assistenza ma anche prospettiva di autogoverno e di dignità, unica garanzia per evitare che la carestia continui a essere usata come strumento di guerra.