Mancano italiani. E il primo – sorprendente – mondiale di ciclismo in Africa passa inosservato

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Premessa inevitabile. Appartengo a una generazione per cui il mondiale di ciclismo era un avvenimento atteso e seguito quanto oggi lo è una finale di Champions League. Anzi, per essere precisi non si trattava solo di una giornata, il tutto durava una settimana o dieci giorni. Si cominciava con la pista, il prestigioso inseguimento individuale e la spettacolare velocità con gli infiniti duelli tra Maspes e Gaiardoni, per arrivare alla prova su strada in una domenica di fine estate. E allora tutti davanti alla tv a tifare, nei diversi decenni, Baldini, Gimondi, Moser impegnati contro Van Looy, Poulidor, Hinault, Merckx. Coppi no, non sono così vecchio per ricordare la sua vittoria nel mondiale del 1953, ma ricordo che il suo mito aleggiava ancora su ogni gara.Tutto ciò per dire che se qualcuno vorrà attribuire le mie prossime osservazioni a un acceso di nostalgia tipica di un boomer, ebbene ne ha buoni motivi. Tuttavia quello che è accaduto, o non accaduto, ieri, merita qualche attenzione, al di là della nostalgia. Per la prima volta il mondiale si è svolto in Africa. Ora, è evidente che il ciclismo è da decenni un fenomeno globale e non più ristretto a quei quattro/cinque paesi dei tempi andati – Italia, Francia, Belgio, Olanda, Spagna – quando un vincitore inglese ai mondiali era già una stranezza. Negli ultimi decenni abbiamo visto i mondiali in tutti continenti, Asia, Americhe, Australia. Ma l’Africa è l’Africa e quello che si è visto ieri è qualcosa di assolutamente inedito, sorprendente, affascinante, nuovo. Nuovo il paesaggio naturale con quel misto di antico e moderno, quel tratto in pavé che sembrava sterrato; nuovo il paesaggio umano con quella macchia nera dei volti degli spettatori, i loro vestiti sgargianti, i tamburi e i telefonini. Non è un discorso di folklore, è l’immagine finalmente vera di un altro mondo. In questo, nella capacità di mostrare il mondo, il ciclismo è uno sport unico.Poi c’è l’altro tema, quello dell’“aiutiamoli a casa loro”, per sintetizzare il tema con uno slogan. E’ chiaro che dietro a tutto questo c’è un’operazione commerciale, un progetto del governo rwandese per favorire uno sviluppo turistico del paese. E tutti sanno quanto sia stretto il legame tra il turismo e il ciclismo, inteso sia come spettacolo, sia, da qualche tempo, come pratica. Se a questo si aggiunge la spettacolarità della gara, la performance di un campione come Pogacar, i suoi cento kilometri di fuga, pensare che quella di ieri sia stata una giornata storica, non credo sia solo un capriccio da boomer.Così invece devono aver pensato i media nazionali, le tv e i giornali. La Rai ha correttamente trasmesso la diretta della gara, prima su Rai sport e poi su Rai 2 a causa della concomitanza con la finale del mondiale di pallavolo vinto dalla nostra nazionale. Poi, portato a termine il compito, nulla o quasi, con un breve servizio nel corso della cosiddetta Altra DS, ben oltre la mezzanotte. Sulle altre reti, briciole o poco più. Sui quotidiani del lunedì, sportivi o generalisti, spazio molto ridotto, nelle ultime pagine, dopo la pallavolo (ovvio), il calcio (ovvio), il motomondiale, addirittura su La Stampa un semplice colonnino laterale, come si trattasse di una gara regionale.Dicono che così vogliono gli spettatori e i lettori, che poi, nel mondiale in Rwanda, non c’era neppure un italiano di cui parlare. Perché questo è il metro con cui si misura l’interesse di un avvenimento, nelle province del mondo.L'articolo Mancano italiani. E il primo – sorprendente – mondiale di ciclismo in Africa passa inosservato proviene da Il Fatto Quotidiano.