Figli di un dio minore: il Sudan e le guerre che non fanno notizia

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di Gianvito Pipitone – LONDRA. Gaza è l’inferno in diretta. L’Ucraina, il dramma in prima serata. Da una parte Netanyahu martella i civili senza ottenere il rilascio dei prigionieri, fallendo nel tentativo di annientare Hamas. Dall’altra Putin e Zelensky si affrontano in un braccio di ferro senza fine che ha trasformato il Donbass in una trincea permanente, con la NATO a reggere il sipario. Due guerre, due narrazioni dominanti. Due palcoscenici saturi di analisi, cortei, hashtag e indignazione.Eppure, fuori campo, lontano dai riflettori, si combattono decine di altri conflitti. Invisibili, silenziati, rimossi.Ma dove sono? Dove si nascondono le guerre che non fanno rumore? Si può almeno provare a tenerne traccia, o abbiamo deciso di trattare l’indignazione a numero chiuso?Secondo l’Uppsala Conflict Data Program, nel 2025 sono attivi 61 conflitti armati nel mondo, con la partecipazione di almeno uno Stato. Ogni anno muoiono circa 233mila persone in episodi di violenza armata, una ogni due minuti. Le milizie coinvolte sono centinaia, spesso non statali, e gli sfollati superano i 123 milioni. Un’umanità in fuga, invisibile, che non trova bandiere né hashtag.Tra queste guerre, la più feroce per modalità e numero di morti è quella che si combatte in Sudan dal marzo 2023. Una guerra strana, figlia della paranoia di un ormai ex dittatore: Omar Hassan Ahmad al-Bashir. Per paura di essere rovesciato, al-Bashir creò un esercito parallelo al SAF (Sudanese Armed Forces), affidato al generale Abdel Fattah al-Burhan. L’altro braccio armato, la RSF (Rapid Support Forces), lo consegnò invece a Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, ex capo delle janjaweed – le tristemente famose milizie del genocidio in Darfur. Una doppia cintura di sicurezza che però, alla lunga, si è trasformata nella sua ghigliottina.Nel 2019 al-Bashir, infatti, venne deposto. Non ucciso, ma politicamente sepolto. La transizione, guidata da al-Burhan, durò qualche anno, poi collassò nel 2023. A questo punto, Hemedti, l’antagonista, passò all’incasso. La scintilla fu la proposta di integrare la RSF nell’esercito regolare. Un pretesto, ovviamente. Da lì, fu guerra totale.Così, i miliziani ribelli della RSF hanno guadagnato terreno, soprattutto nel Darfur, dove hanno commesso crimini sistematici: stupri, massacri, pulizia etnica. Hanno controllato buona parte della capitale Khartoum, fino a quando, all’inizio del 2025, le SAF hanno rialzato la testa, riconquistando territori e città strategiche come Wad Madani ed El-Fasher. Ma il prezzo è altissimo: 120.000 morti stimati, milioni di sfollati, ospedali distrutti, bambini senza scuola.Il Sudan è oggi la guerra più devastante del pianeta. Più di Gaza, più dell’Ucraina. Eppure nessuno ne parla. Non ci sono flotilla per il Sudan, né piazze indignate. Nessuna bandiera civile. I morti sudanesi trattati come figli di un dio minore. Vittime di una geografia che non fa notizia.E come ogni guerra africana, anche questa muove gli interessi dei potenti. I ribelli della RSF di Hemedti vengono sostenuti dalla Russia, che cerca oro e basi militari, e dagli Emirati Arabi, interessati alle loro rotte commerciali. Dall’altra parte, le SAF di al-Burhan sono appoggiate da Egitto e Arabia Saudita, per ragioni di sicurezza regionale. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Unione Europea si schierano (si fa per dire) a favore della democrazia, leggi prudenza, nel tentativo strategico di contenere l’esuberanza russa in Africa. E l’ONU? Ovviamente brancola nel buio, come da copione.È il solito teatrino. I civili muoiono per il capriccio del potere, per la fame di gloria, per la cupidigia di due generali con le mani sporche di sangue, due fazioni criminali opposte, senza scrupoli, appoggiate e fomentate dai capitali stranieri interessati alla spartizione della torta.E noi, qui, a contare le guerre come si contano le stelle: tante, lontane e irraggiungibili.Ma il Sudan non è lontano. È qui, nel nostro silenzio, nella nostra indifferenza. Per Gaza, giustamente, si alzano voci, si scrivono editoriali, si convocano conferenze. Ma i civili del Sudan? Può il Sudan morire in sordina come se niente fosse? Può implodere nel buio, senza che il nostro sistema mediatico – così pronto a indignarsi a comando – gli dedichi un decimo dell’attenzione che merita? Se solo quel rumore fosse distribuito con un minimo di equità, la pressione sulla comunità internazionale sarebbe inevitabile. E forse, in quel frastuono ben indirizzato, qualcosa si muoverebbe. Ma i civili del Sudan non fanno audience. Purtroppo. Non hanno sponsor, né hashtag. Hanno solo spasmi, e un silenzio assordante che li accompagna.Forse che i loro morti non valgono un post? Ma se la coscienza civile è ancora viva, e se l’indignazione trabocca davvero, allora è ora di ascoltarla. Perché nessuno sulla terra dovrebbe essere figlio di un dio minore.